La poesia di Leopardi negli anni napoletani (1980)

Testo rivisto e annotato del discorso tenuto a Napoli, Castel dell’Ovo, il 23 aprile 1980, pubblicato in «La Rassegna della letteratura italiana», n. 3, settembre-dicembre 1980, e poi raccolto in La protesta di Leopardi cit.

LA POESIA DI LEOPARDI NEGLI ANNI NAPOLETANI

Siamo qui riuniti – nel castello dove fu imprigionato De Sanctis, primo e grande interprete di Leopardi[1] – nell’occasione di una nuova sistemazione dei luoghi della tomba di Leopardi ad opera dell’amministrazione comunale di Napoli, per prender migliore coscienza della vera grandezza del massimo poeta e intellettuale dell’Ottocento italiano ed europeo e addirittura di tutta l’epoca moderna, di cui egli interpreta i nascenti e fondamentali problemi sí che ancora ci parla perentorio e inquietante, sollecitante, sulla via aspra e tortuosa della storia, a doverosi impegni e a comportamenti intellettuali, culturali, etico-civili, ancora è per noi portatore di un messaggio che culmina nella Ginestra, sconvolgente, supremo capolavoro di tutto Leopardi e del suo ultimo sviluppo a Napoli. Perché, proprio nel periodo napoletano, al termine della sua lunga vicenda esistenziale, intellettuale e poetica, il Leopardi sprigiona tutto intero il succo profondo della sua esperienza di intellettuale-poeta, la ricchezza inesausta della sua forza creativa, ricapitola e condensa la sua ardua e complessa problematica portandola a maturazione completa entro la nuova prospettiva che egli aveva aperto dopo il definitivo abbandono di Recanati nel ’30 e in cui il fondo piú autentico della sua personalità eroica, virile, protestataria si salda definitivamente con la direzione di un pensiero materialistico integrale e articolato, antiteistico e ateo, e si commuta in una nuova poetica attuata in forme nuove audacissime, sinfoniche («musica senza canto»), essenzialmente antiidilliche. Nuova poetica che raccoglie la piú autentica spinta di fondo della sua precedente poesia, e si svolge dalle varie pieghe e componenti che pur tanta grande poesia avevano prodotto, a ben vedere, sempre diverse esse stesse da quella tendenza idillica, in cui per tanto tempo la critica ha rinchiuso e mistificato il vero Leopardi in accordo con la consapevole o inconscia esorcizzazione delle conclusioni del suo pensiero-poesia troppo scomodo e pericoloso per le prospettive di una civiltà bisognosa, malgrado (o per) le sue tremende crisi, di consolazione e rassicuranti certezze, di speranze (generose o meno) di destini ultraterreni o terreni, in visioni trionfalistiche delle conquiste e della sorte umana.

Di questo supremo contestatore di ogni sistema spiritualistico e idealistico, provvidenzialistico e falsamente progressivo e della sua vera natura e tendenza, solo verso la fine del primo Novecento si è presa diversa coscienza ad opera, non a caso, di uomini della cultura di sinistra[2] che, nel fervore della lotta antifascista e nelle stesse deluse speranze del ’45-46, identificarono in Leopardi il loro interlocutore piú alto nella nostra storia e nei loro problemi, il loro intellettuale-poeta e moralista piú congeniale, e arditamente impiantarono e svilupparono (fin dal 1935 con un mio esile saggio giovanile[3], poi nel ’47 ancora io con il mio libro La nuova poetica leopardiana[4], e Cesare Luporini, con il suo Leopardi progressivo[5], e ancor piú tardi, fra gli altri numerosi studiosi[6], Sebastiano Timpanaro con i suoi vari interventi e ancora io fra ’60, ’69 e ’73 con altri saggi e soprattutto con il volume La protesta di Leopardi[7]) una interpretazione storicamente fondata e sostanzialmente irreversibile, anche se da approfondire e arricchire, ma certo non intaccata per ora né da ritorni ammodernati delle vecchie interpretazioni nel disgustoso «riflusso» irrazionalistico-spiritualistico odierno, né da cedimenti o irrigidimenti schematici, interni alla stessa cultura di sinistra[8], in prospettive di un processo rettilineo della storia nei suoi passaggi politico-sociali che vorrebbero ridurre Leopardi ad un arretrato o emarginato, e appaiono scarsamente sensibili alla forza e allo spessore storico della poesia senza di cui inconoscibile resta la stessa integralità del grande intellettuale e moralista e del vero significato del suo stesso pensiero, della sua posizione storica, delle sue proposte inquietanti, della sua ardua e fertilissima problematica.

Tutto Leopardi, secondo l’interpretazione sopra ricordata, va visto alla luce di un’essenziale e nucleare tendenza attiva ed eroica che si commuta in una poesia dal fondo energico e arditamente conoscitivo, pur nella complessità di uno svolgimento cosí ricco di direzioni e di poesia. Ma tanto piú tale tendenza si evidenzia nel periodo fiorentino e napoletano, quando (realizzate e consumate le componenti della ricordanza e dell’elegia, del canto melodico che avevano alimentato la pur grandissima poesia pisano-recanatese, essa stessa del resto ben diversa da un idillio catartico e consolatorio), il Leopardi prende piú matura consapevolezza di sé, del suo valore nel presente e ne sviluppa una poesia altissima nei grandi canti della passione fiorentina per Fanny, contraddistinti da forme audacissime di energia lirica e di impeti ascendenti nell’affermazione di sé, del valore della propria personalità e delle proprie idee e valore in contrasto con la realtà esistenziale, con la mediocrità e la stoltezza della sua epoca[9], con le forze ostili della natura e del «brutto poter, / che, ascoso, a comun danno impera», secondo le parole martellate, nel ritmo beethoveniano degli ultimi quartetti, di quel canto A se stesso che conclude, nel periodo fiorentino, nel ’33, la disperata e fertile esperienza dell’amore appassionato e infelice con quel possesso di sé ancor piú affermato che il Leopardi autenticamente interpretava nel grande pensiero LXXXII che riporto nei suoi punti essenziali: «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la sua fortuna e lo stato suo nella vita... Il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni, o infortuni o da qualche passione grande cioè forte e per lo piú dall’amore, quando l’amore è gran passione, cosa che non accade in tutti come l’amare... Certo all’uscire di un amor grande e passionato l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ad esperto la natura delle passioni, perché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; egli si sente in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di se e degli altri»[10].

Proprio questo eccezionale pensiero ci guida alla situazione leopardiana all’inizio del periodo napoletano (durante il quale verosimilmente quel pensiero fu steso) quando l’esperienza di sé era stata compiuta entro l’esercizio della passione e della poesia fiorentina, ed egli si sentiva «piú potente», piú in possesso di tutte le sue facoltà e di tutte le sue forze in una capacità di diramazione articolata e poi in una concentrazione totale che ben segna la novità della sua posizione e della sua poesia negli anni passati fino alla morte, a Napoli.

Qui a Napoli egli giunse con il napoletano Ranieri il 2 ottobre 1833 nel pieno di quel sodalizio che anche recentemente, in relazione alla ristampa del libro senile del Ranieri, ha fatto spendere tante vane parole ad alcuni dei piú prestigiosi snob della nostra mediocre stagione culturale[11] e che fu invece per Leopardi un modo di esercizio di affetti seri ed intensi, un legame profondo con una persona concreta ed amica di cui poté ben avvertire i limiti, ma a cui, non a caso, egli rivolgerà le ultime parole al momento della morte, «Io non ti veggo piú»[12], altissima espressione dell’intensa passione umana di Leopardi, dell’appassionato bisogno del tu concreto, base del noi, fatto, per Leopardi, di persone autentiche, non di un astratto amore universale, non dell’astratta filantropia.

E si ricordi che, insieme a Ranieri, il Leopardi aveva conosciuto già in parte, a Firenze, quella intellettualità napoletana globalmente nei Nuovi credenti.

Dunque egli non era totalmente estraneo all’ambiente culturale di Napoli, seppure non conosceva la città che tanto apprezzò all’inizio del suo soggiorno (lodando, in una lettera al padre, «la dolcezza del clima, la bellezza della città, l’indole amabile e benevola degli abitanti»[13]), anche se poi nell’attrito concreto con la realtà napoletana e nelle complesse ragioni di deludenti occasioni (editori imbroglioni, padroni di casa esosi, oltre al governo censorio e autoritario e l’intellettualità dei «nuovi credenti») giungerà a noti durissimi giudizi su Napoli («il paese semibarbaro e semiafricano», «i Lazzaroni pulcinelli nobili e plebei tutti ladri e b.f. degnissimi di spagnoli e di forche»[14]): quella Napoli il cui clima comunque certamente agevolò una fase di lenta e contrastata ripresa di relativa buona salute consolidata dopo quasi un anno di soggiorno in questo scorcio dell’inverno del ’34 e la primavera del ’35[15], quando egli potè riprendere l’attività creativa (estesa poi anche nella ripresa piú grave della sua malattia fra ’36 e ’37) e comporre anzitutto Aspasia e le due canzoni sepolcrali.

Specie di ciclo collegato in parte con il ciclo dei canti dell’amore fiorentino, prima in Aspasia il Leopardi ritorna sulle ragioni dell’«estremo inganno» abolito energicamente in A se stesso, ma ancora capace di riaffiorare nell’immagine ossessiva della «dotta allettatrice» riemersa con nuova capacità poetica di immagine cosí nuova e ottocentesco-realistica (che indica le nuove disponibilità di una creatività poetica tanto ulteriormente rinnovata) e ora definitivamente allontanata con un singolare drammatico processo di rievocazione-liberazione di sapore prefreudiano, in cui il nuovo possesso di sé opera rispetto al recente passato salvandone il significato dell’«amorosa idea figlia / della sua mente»[16] mal identificata nella donna reale, angusta e inferiore ai prodotti della mente dell’uomo e del grande intellettuale, in un ingorgo drammatico in cui conta soprattutto la sicura perentoria affermazione di sé, della sua personale creazione mentale e del finale amaro sorriso con cui il poeta oltrepassa l’occasione dell’inganno amoroso e riaggredisce il fato mortale nell’eroica-ironica contemplazione delle apparenze naturali: «il mar la terra il ciel miro e sorrido».

Salvata la radice di verità dell’estremo inganno, liberato definitivamente da quello e dalle sue sembianze immaginose e sensuali, confermata la sua posizione e superiorità filosofico-poetica nella separazione tagliente fra la donna ideale e la donna concreta, Leopardi è poi sospinto dalla stessa immagine caduca e pur «quasi divina» della bellezza femminile nella densità della sua meditazione materialista che ben sa come l’uomo è «materia» che «sente e pensa»[17], ma che ne indaga e ne saggia dolorosamente l’interna problematica soprattutto sul tema del destino di morte degli uomini, ribadito e inquietante, nei suoi effetti di lacerazione del rapporto fra le persone amanti[18] (suprema riprova della crudele indifferenza della natura madre-matrigna) e sul tema dello scompenso fra la bellezza, i suoi effetti quasi divini e la fragilità della stessa bellezza e dell’essere umano in generale. Che sono i grandi problemi delle due canzoni sepolcrali e del grande materialista, sicuro delle sue verità, ma anche capace di scavarle e arricchirle con domande inquietanti (non la pace del materialista arido e freddo), con interrogazioni supreme sul dramma esistenziale dell’uomo e sul non pacifico acquisto delle sue certezze, senza per altro accedere a quella via di materialismo mistico su cui si muove il pensiero del grande Feuerbach che pur tanto, in prospettiva europea ottocentesca, appare vicino e consonante con quello di Leopardi: dal tema della suprema alienazione dell’uomo nella religione, fino all’amore vero e severo della Ginestra e all’amore piú materialistico-mistico del Feuerbach nella sua Filosofia dell’avvenire, come fondamento di una nuova società[19].

Né d’altra parte le due sepolcrali sono una meditazione profonda solo intellettuale, perché esse (specie la prima, Sopra un bassorilievo sepolcrale antico rappresentante una giovane donna nell’atto di accomiatarsi dai suoi, uno dei capolavori nuovi del periodo napoletano) sono interamente costruite poeticamente (la struttura, il ritmo, le pause, le figure retoriche interiorizzate) e offrono inedite forme dell’interrogazione lucida e dolente di Leopardi, del suo interno dibattito, incessante, poeticamente attivo e coerente alle innovate forme della nuova poetica in nuove versioni che nascono dallo sviluppo del pensiero-poesia. Come ben dimostra la domanda-risposta dell’inizio della prima sepolcrale: fra la prima strofa disposta tutta in cinque domande malinconiche e meditative

(Dove vai? Chi ti chiama

lunge dai cari tuoi,

bellissima donzella?

Sola, peregrinando, il patrio tetto

sí per tempo abbandoni? a queste soglie

tornerai tu? farai tu lieti un giorno

questi ch’oggi ti son piangendo intorno?)

e la ferrea, replicata risposta assoluta, scandita in progresso nella terza strofa che apre insieme il problema della sorte degli uomini nati per la morte cui invano troppi «mortali» credono di sottrarsi con quella prospettiva di continuazione ultraterrena che Leopardi aveva da tempo rifiutato e che ora con tanta energia di ritmo assoluto, con tanta forza ribadisce:

Morte ti chiama: al cominciar del giorno

l’ultimo istante. Al nido onde ti parti,

non tornerai. L’aspetto

de’ tuoi dolci parenti

lasci per sempre. Il loco

a cui movi, è sottoterra:

ivi fia d’ogni tempo il suo soggiorno.

Mentre nella seconda (Sopra il ritratto di una bella donna nel monumento sepolcrale della medesima) la bellezza femminile, rievocata (in analogia con la figura di Aspasia) in una visione mai cosí intera e particolareggiata nel suo splendore e nei suoi effetti sulle persone ammiranti ed attratte, viene dissolta (nella prospettiva funerea) in una cruda descrizione della decomposizione fisica dopo la morte («polve e scheletro sei», «or fango ed ossa sei»[20]) e da questo montaggio-smontaggio vero e doloroso si risale alla domanda appassionata sul mistero della condizione e della natura umana, capace di tanto alto sentire e ridotta improvvisamente a polvere e fango: sorte destinata dalla natura a «tutti noi che, senza colpa, ignari, né volontari al vivere abbandoni», che prepara di lontano il formidabile noi della Ginestra, e rinsalda e conferma il suo pessimismo materialistico e antiprovvidenzialistico cosí antitetico e alternativo al giustificazionismo consolatorio o paternalistico del Manzoni pur espresso nelle alte forme della «provida sventura» e del «sen regale» in cui la «femminetta» «la sua spregiata lacrima depone»[21]. Cosí Leopardi (conclusi gli esiti dell’esperienza dell’amore fiorentino) può rivolgersi ad una nuova fase della sua creatività, ora adibita a una battaglia ideologica nel presente storico, svolta nei due componimenti che partitamente attaccano l’ambiente dei borghesi liberalmoderati e spiritualista-ottimista fiorentino a lungo esperito e quello, piú recentemente conosciuto, dell’intellettualità ottimistico-edonistica e idealistica, cattolica, dopo le sue forti e rinnegate premesse illuministiche, dell’ambiente napoletano, dal cui intrecciato attrito partiva certo l’abbrivio a questa battaglia in poesia.

Nella Palinodia rivolta al «candido» Gino Capponi (candido come il Candide del Voltaire piú pessimistico e congeniale[22]) e puntata poi sull’aborrito Tommaseo (ma in realtà rivolta a tutto l’ambiente fiorentino e ai suoi legami europei: l’Europa dell’epoca di Luigi Filippo e della crescita della borghesia liberal-moderata) Leopardi attacca, fra ironia e piú vera, dura condanna, un’intellettualità fiduciosa nel progresso tecnico, nella divulgazione, specie giornalistica, di una mediocre cultura immediatamente «utile» fra le «masse»[23] (Leopardi contesta la massificazione che nasconde l’infelicità degli individui in quegli acquisti della tecnica e della statistica che egli aggrediva non tanto in se stessi, quanto nella stolta sicurezza che essi bastassero di per sé a superare i profondi limiti della natura e condizione umana) enfatizzando il ridicolo di quell’affaccendamento privo di saldi fondamenti e del riconoscimento delle leggi naturali che quegli intellettuali ignoravano o volevano ignorare e cosí comunque non potevano (e in parte non volevano) impiantare una nuova nozione di politica alternativa. Perché, a ben vedere, Leopardi non abbominava la politica tout court, ma quella politica e le sue basi culturali ottimistiche e perfettibilistiche, spiritualistiche, mistificanti le vere leggi ferree della natura e quelle di una società, sbagliata che bisogna anzitutto conoscere interamente fino in fondo anche per tentar poi di mutarla come soprattutto, con apparente assurda sfida, proporrà il Leopardi nella Ginestra[24]:

[...] Ardir protervo e frode,

con mediocrità, regneran sempre,

a galleggiar sortiti. Imperio e forze,

quanto piú vogli o cumulate o sparse,

abuserà chiunque avralle, e sotto

qualunque nome. Questa legge in pria

scrisser natura e il fato in adamante;

e co’ fulmini suoi Volta ne’ Davy

lei non cancellerà, non Anglia tutta

con le macchine sue, né con un Gange

di politici scritti il secol novo.

Sempre il buono in tristezza, il vile in festa

sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse

in arme tutti congiurati i mondi

fieno in perpetuo: al vero onor seguaci

calunnia, odio e livor: cibo de’ forti

il debole, cultor de’ ricchi e servo

il digiuno mendico, in ogni forma

di comun reggimento, o presso o lungi

sien l’eclittica o i poli, eternamente

sarà, se al gener nostro il proprio albergo

e la face del dí non vengon meno.

Donde, nel modulo della palinodia-ritrattazione, ironica e celante un’energica affermazione già sperimentata nel ’32 nel Dialogo di Tristano, egli può insieme satireggiare le vane speranze progressive e perfettibilistiche[25] degli intellettuali fiorentini – negli endecasillabi sciolti e nel linguaggio elegante e aspro di ascendenza pariniano-alfieriano (l’Alfieri delle Satire aggiornato sottilmente ed energicamente a un livello piú decisamente ottocentesco, con l’uso sapiente di ogni mezzo retorico e il pimento di parole straniere, choléra, walser, pamphlets – tipiche della divulgazione e dell’uso esterofilo della pubblicistica del tempo) e macroscopizzare i vari fenomeni della moda del tempo (il dilagare delle gazzette che coprono la faccia del mondo o l’espandersi delle barbe liberali con cui è siglato il finale) per insieme rivelare piú direttamente, con certezza inflessibile, sotto il manto della filantropia, popoli extraeuropei duramente colonizzati, e le leggi naturali, fuori e dentro l’uomo, che severamente egli enuncia, consolidandone, con nuova lucida energia, la resistenza indomabile e perenne:

[...] d’ogni sforzo in onta,

la natura crudel, fanciullo invitto,

il suo capriccio adempie, e senza posa

distruggendo e formando si trastulla.

Indi varia, infinita una famiglia

di mali immedicabili e di pene

preme il fragil mortale, a perir fatto

irreparabilmente: indi una forza

ostil, distruggitrice, e dentro il fere

e di fuor da ogni lato, assidua, intenta

dal dí che nasce; e l’affatica e stanca,

essa indefatigata; insin ch’ei giace

alfin dall’empia madre oppresso e spento.

Mentre nei Nuovi credenti (anche se con una chiara deformazione del pur generoso movimento di idee che animava la cultura napoletana in quegli anni di dubbia tolleranza e tregua[26] all’inizio del regno di Ferdinando II – con uno sfasamento essenziale fra la politica governativa che cercava, con un moderato riformismo, un consenso culturale per i propri fini di persistenza e di affermazione e le prospettive liberali costituzionali degli intellettuali piú avanzati –) Leopardi attaccava, al di là del popolo godereccio e pittoresco, nel suo comunque vivere, ignaro e senza valori, su di uno sfondo paesistico-cittadino e di colore moderno nelle adatte terzine agili e satiriche-sorridenti della rinnovata tradizione bernesca e ariosteca[27], soprattutto l’«intellighenzia» napoletana accomunata a quel vitalismo edonistico e futile, e responsabile, a ben vedere, delle stesse caratteristiche negative di un popolo a cui essa non offre la verità, elaborando invece una cultura illusoria e radicalmente sbagliata, con le sue prospettive ottimistiche, spiritualistiche, neocattoliche prevalenti dopo l’abbandono delle dottrine illuministiche e materialistiche prima professate (i «nuovi credenti») e perciò privata, da parte del poeta, di ogni compassione («ché misera non è la gente sciocca»), di ogni alta considerazione umana positiva («né il bel sognò giammai né l’infinito») proprio malgrado lo spiritualismo tanto proclamato[28].

Come soprattutto emerge dalle caricature sarcastiche e deformanti di alcuni rappresentanti di quella cultura (ad esempio il valoroso Elpidio-Saverio Baldacchini – l’uomo della stolta speranza) tutta globalmente satireggiata nel suo ottimismo («bella Italia»[29], «bel mondo», «età felice», «dolce stato mortale») e nel suo spiritualismo, sotto lo stimolo di un dissenso di fondo, alimentato anche da ragioni di irritazione e sdegno personale di fronte a un’incomprensione che Leopardi avvertiva nell’ambiente colto napoletano nei confronti suoi e del suo pensiero e poesia persino da parte dei suoi numerosi ammiratori; magari (a livello piú superficiale) lo stesso nomignolo di «o’ ranavuottolo» bonariamente offensivo con cui Leopardi era chiamato negli stessi salotti da cui era affettuosamente accolto, e (a livello piú profondo) gli accenni di condanna, esplicita o implicita, del suo pessimismo e della sua poesia nei periodici e in opere napoletane (o nel poemetto Giulio Vanini del Baldacchini o nella rivista «Progresso», ad esempio, dove un articolo paragonava l’Inno ai Patriarchi del Mamiani a quello omonimo del Leopardi a tutto svantaggio del secondo), l’associazione di Leopardi a Tommaseo nelle scelte del pur leopardiano Alessandro Poerio, la stessa mistificazione della sua poesia convertita, a forza, ad una sua implicita religiosità proprio perché alta poesia, secondo una tendenza tipica dell’interpretazione napoletana e meridionale del Leopardi da parte del Baldacchini stesso[30], e piú tardi, della Guacci Nobile, del Poerio[31]. Meno poi egli sapeva di giovani entusiasti come De Sanctis e altri allievi del Puoti, la cui scuola Leopardi visitò[32], ma con un avvertimento agli scolari del marchese sulla netta preferenza della «proprietà» all’«eleganza» dello stile (con tutte le sue profonde conseguenze e implicazioni ideologiche) che suonava ulteriore dissenso con quell’ambiente puristico napoletano che pur lo esaltava come grande scrittore, ma non ne comprendeva o accettava il fondo ideologico[33] e la sua vera poesia.

Gli uomini non erano proprio come Leopardi li deformava nelle sue impietose caricature e le cose nella cultura napoletana del tempo non erano esattamente come il Leopardi le vedeva (forti i legami con il sensismo, forte la tradizione vichiana, fertile il coscienzialismo del Galluppi di sviluppi verso l’accettazione seria dell’hegelismo pur entro l’emergente diffusione del mediocre cousinismo eclettico dilagante in quegli anni e dominato dal fine spiritualistico). Ma ciò che conta per Leopardi è l’intuizione essenziale di una direzione filosofica che comunque egli avrebbe attaccato (se, in contrasto con le vere e sode scoperte di Bacone, Newton, Locke, Galileo, Cabanis, perfino il sistema kantiano, come tutte le filosofie metafisiche, idealistiche, gli apparivano come veri e propri «poemi della ragione» e «sogni e deliri della mente umana») nella sua battaglia di principio contro ogni tendenza spiritualistica, idealistica e religiosa (specie cristiana e cattolica) oltreché in sede politica neoguelfa e liberalmoderata[34].

Un Leopardi perciò incapace di capire il proprio tempo o addirittura filosoficamente o politicamente reazionario[35]? Certamente no; né Leopardi è un intellettuale arretrato rispetto alla storia da cui apparirebbe, secondo alcuni, emarginato, ma un grandissimo intellettuale-poeta che, partendo dalla storia contemporanea di cui vede la piega inaccettabile, la sfonda e prepara di lontano una stessa nozione piú vasta di politica nuova e diversa dalla pratica usuale di questa, fondata sulla preliminare accettazione della verità materialistica e antiprovvidenzialistica, dei ferrei limiti naturali della condizione umana, senza di cui ogni politica è, per lui, vana e ripetitoria di forme vecchie e falsamente progressive, legata ad uno sviluppo della civiltà industriale e borghese di cui egli rifiuta, conoscendoli, gli interessati e perfidi principi utilitaristici e gli ideali (di copertura) ottimistici e spiritualistici e di cui pur noi (con l’ausilio di nuove potenti indagini filosofiche-scientifiche come anzitutto quella marxiana[36]) vediamo gli esiti maturi (e forse di convulsa e frenetica crisi) soffrendone le conseguenze disumanizzanti.

Del resto egli era tutt’altro che inesperto e disattento rispetto ai problemi politici-civili (si pensi non solo alle canzoni patriottiche e civili, ma al vero e proprio abbozzo di un libro politico nello Zibaldone del ’21, si pensi al Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani e a tanti pensieri dello Zibaldone) ed ora egli, soprattutto nei Paralipomeni, svolge, con tanta maggiore concretezza, un denso discorso sugli avvenimenti politici recenti scoprendone aspetti particolari e il fondamento sbagliato e riportandolo a quella zona politica, morale-filosofica, a quella problematica di verità materialistica e antispiritualistica, senza il possesso della quale vano e frivolo gli appare l’affaccendarsi illuso e illusorio dei liberalmoderati del suo tempo.

E che egli sia comunque in una posizione anche politicamente nettamente antireazionaria, ce lo dice, fuori della sua opera poetica di questo periodo, un brano di una lettera del ’36 al padre Monaldo (sanfedista estremista e scomodo difensore del trono e dell’altare persino per le potenze che egli sostiene) in cui egli ironicamente consola e ammonisce il padre (la cui rivista, «La voce della ragione», era stata soppressa, per il suo reazionarismo ultra) con il fondo severo e sicuro di chi, malgrado le diversità profonde, pur sente e fa suo il fondo delle confuse ragioni (di fronte al nemico comune) degli avversari dei regimi assoluti nati dalla Restaurazione: «I legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne mortali: oltreché che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per ora non hanno che rispondere»[37]. Per ora!

Ma, ripeto, la sua posizione anzitutto antireazionaria, e poi, in lotta con i liberalmoderati e le loro idee e comportamenti, è ben chiarita da una corretta lettura del formidabile poemetto I Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziato a Firenze dopo il ’31 in toni piú da divertissement satirico, si sviluppa e svolge le piú profonde note satiriche, grottesche, terribili, soprattutto in questo grande ultimo periodo napoletano. E quanti elementi paesistici riportano all’esperienza di Napoli, quante illusioni si riferiscono non solo ai moti napoletani del ’20 (base ai riferimenti successivi ai moti italiani del ’31), ma alla situazione contemporanea – e Topaia è Napoli – e si avvalgono di una sintetica e nuova esperienza delle prospettive ideologiche e politiche degli intellettuali-politici fiorentini e particolarmente napoletani[38].

Orbene in quel poemetto (che è un capolavoro trascinante ed estremamente geniale nella sua globale struttura filosofico-conoscitiva-pragmatica e poetica, nella sua novità eccezionale[39] entro la direzione dell’ultima poetica leopardiana) non può non colpire il fatto che l’aggressione satirica si rivolge anzitutto, e con maggior forza feroce, contro i granchi (i reazionari per eccellenza, gli austriaci nella situazione europea e italiana della Restaurazione in poi, il braccio armato della S. Alleanza e della coalizione alleata – dominata dai principi «legittimi» italiani) rappresentati in una luce livida e quasi surreale che si precisa nella loro durezza crostacea, nella lucentezza paurosa e meccanica dei loro movimenti di truppe e singoli burocrati, diplomatici, generali, nella loro realtà di «granchi» (che camminano a ritroso) e soldatacci («i marmorei lanzi / gente nemica al camminare innanzi»): le figurazioni di Boccaferrata e Camminatorto o quella piú acre del generale Brancaforte, allucinante nella sua ottusa mentalità e nel suo comportamento di rozzo militare «scortese a un tempo e di servile aspetto» («sputò, mirossi intorno e si compose / il general dell’incrostata gente», «sputò di nuovo e posesi in assetto»), nell’identificazione brutale della vera natura della «missione» dell’Austria[40] («Noi, disse il General, siam birri appunto / d’Europa e boia e professiam quest’arte») o nella enunciazione della teoria dell’equilibrio europeo denudato nella sua verità di danno dei popoli oppressi per giungere fino alla mordente rappresentazione di Re Senzacapo (una volta tanto l’allusione a personaggi storici nelle figure del poemetto è inoppugnabile: Senzacapo è l’imperatore Francesco I che, nemico acerrimo delle costituzioni, è colto intento a regolare minutamente la giornata e le pene corporali dei suoi prigionieri politici liberali[41]).

Mentre i topi-liberali sono satireggiati violentemente, ma non senza un raggio di compassione per l’ingenuità implicita nella complessa sfaccettatura della loro natura pur radicalmente stolta. E se al conte Leccafondi (il loro politico-intellettuale piú significativo) si addice «il riso o la pietà», l’ammirazione piú calda e l’empito di un animo cosí caldo e generoso com’è quello del Leopardi sono promossi dalla figurazione dell’eroico, leopardiano topo Rubatocchi che, dopo avere sdegnosamente rifiutato la dittatura di Topaia, solo, abbandonato dalle sue truppe in fuga, muore in battaglia, non degnato di uno sguardo da un cielo indifferente e chiuso («cadde, ma il suo cader non vide il cielo»), in una specie di sintomatico capovolgimento della morte dell’eroe cristiano del Tasso, il principe Sveno, che, morto, è ancora rivolto al cielo e dal cielo è onorato di un raggio luminoso[42]; e tale figurazione fa scattare la disperata tensione leopardiana alla «virtú» (la virtú tante volte definita «stolta», persino «patrimonio dei coglioni»[43]) anche se di topi, anche se immaginata e creata dall’immaginazione, addirittura mitica e comunque piú rara o addirittura inesistente nel proprio secolo «superbo e sciocco», nella propria età «vaga di ciance e di virtú nemica» come l’aveva già definita il Pensiero dominante.

Bella virtú, qualor di te s’avvede

come per lieto avvenimento esulta

lo spirito mio: né da sprezzar ti crede

se in topi anche sii tu nutrita e culta.

Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,

o nota e chiara o ti ritrovi occulta

sempre si prostra: e non pur vera e salda,

ma imaginata ancor, di te si scalda.

Ahi ma dove sei tu? sognata o finta

sempre? vera nessun giammai ti vide?

o fosti già coi topi a un tempo estinta,

ne’ piú fra noi la tua beltà sorride?

Ahi se d’allor non fosti invan dipinta,

né con Teseo peristi o con Alcide,

certo d’allora in qua fu ciascun giorno

piú raro il tuo sorriso e meno adorno[44].

Poi, ferma restando la durissima condanna dei reazionari, delle loro ideologie (i pensatori della Restaurazione, De Maistre, De Bonald, Lamennais), del loro braccio armato (l’Austria) e degli aborriti Asburgo, l’attacco ai topi liberali si approfondisce dalla satira delle piú risibili forme superficiali delle barbe carbonare e delle congiure velleitarie nei caffè, alla radice centrale del loro agire senza il supporto di un pensiero vero. Sicché, dopo i primi canti in cui anche lo stile è piú divertito ed arioso (con una nuova capacità di quadretti di paesaggio in toni fra ironia e freschi e tenui colori[45]), proprio nei canti certamente composti a Napoli (cui, ripeto, rimandano espliciti e impliciti segni nel paesaggio di Topaia in paragoni e in richiami paesistici e storici precisi) il poemetto assume il suo aspetto di libro «terribile» (come lo definí inorridito il Gioberti) quando aggredisce – intorno al viaggio del topo e «filotopo» Leccafondi alla ricerca di una risposta, valida per la liberazione di Topaia asservita ai granchi – le prospettive politiche liberalmoderate (monarchia costituzionale, fiducia nell’aiuto straniero, fede nella divulgazione gazzettistica e gabinettistica della cultura ecc.) nel loro presupposto filosofico: la fede nella perfettibilità del topo-uomo, la fede nell’aldilà, la ritenuta bontà della natura, a cui, in contrasto, si oppone il «malpensante», come si definisce l’intellettuale-poeta, anticonformista, ribelle, protestatario, disorganico (come sempre sono i veri grandi intellettuali rispetto alle classi dominanti o in ascesa, i reazionari di origine feudale e i progressisti borghesi) e, fra satira, ironia e sdegno, enuncia l’elaborato cardine del proprio pensiero: la materia pensante (donde l’assurdità di ogni aldilà e di ogni finalità provvidenziale nella natura, definita come «capital carnefice e nemica» degli esseri viventi). E questo nuovo pensiero materialistico lucido, aggressivo, articolato, si chiarisce e si inasprisce e potenzia – con una sempre maggiore unione di pensiero e poesia adiuvata da una precisa base letteraria nell’utilizzazione di poemi satirici del 5-6-700 (dal Berni al Casti) – nel ritmo crescente del viaggio di Leccafondi, nelle nuove forme del linguaggio e del paesaggio: la tempesta rovinosa con il suo vento spietato, il viaggio in volo con il fantastico Dedalo[46] sull’Italia preistorica (che richiama la vicinanza alla Ginestra nel paesaggio desertico di materia violentata e scheletrita), la discesa nell’Averno dei topi. Dove un grottesco crudele evidenzia la stoltezza di ben altre immagini dell’aldilà, che qui invece compare «senza premi e senza pene», fatto di uguali buchi piú o meno larghi a seconda della statura degli animali, fra cui è compreso l’uomo (esso stesso destinato ad una morte totale) e insieme prepara la corrosiva, paurosa rappresentazione dei topi-morti nella loro orrida immobilità simili alla palermitana mummia corrosa di Federico II di Svevia (cosí crudamente grottesca «senza naso né labbra», «ma col brando alla cinta e incoronato, e con l’imago della terra allato») nel loro «funereo coro», nel loro stentato parlare (dopo la lugubre risata che risuona sinistramente nel cupo averno sotterraneo): «un profferir torbo ed impuro» («che fean mezzo le labbra e mezzo il naso»), con cui lo rimandano a Topaia, al vecchio generale Assaggiatore che si rifiuta di partecipare alle congiure liberali perché egli (simbolo, seppur parziale, di Leopardi) le considera frivole e illusorie se prima non appoggiate ad un pensiero «vero», non vuole agire senza rettamente pensare (né pensare oziosamente senza poi coraggiosamente agire): vero avvio di risposta non qualunquistica del poemetto (che pur si conclude con una falsa interruzione per la mancanza del vecchio manoscritto che Leopardi finge di seguire) anche se la risposta è resa esplicita solo nella Ginestra e, in quella, ampliata dall’ambito dell’Italia a quello di tutta l’umanità e che appare in parte mediata da alcuni spunti di quei 111 Pensieri, la cui struttura nuova Leopardi aveva progettato da tempo, e iniziato ad attuare nel periodo fiorentino, ma che realmente si sviluppa e si consolida in quello napoletano. Troppo a lungo trascurati o sottovalutati, i Pensieri invece (calcolati proprio nell’angolatura della nuova poetica[47]) sono ben altro che un acre sfogo misantropico fine a se stesso, una semplice ripresa e scelta di pensieri zibaldoneschi: nuova è l’utilizzazione di questi (quando poi non si tratta di pensieri interamente nuovi come quello che abbiamo letto all’inizio e nati dalle nuove esperienze fiorentine e napoletane), nuova è la struttura di opera autonoma del piccolo, ma originalissimo libro, in cui il grande moralista di statura europea (unico nella nostra cultura moderna e raro in quella piú antica, se si eccettui Guicciardini), scandaloso per i «benpensanti» e i tutori dell’ordine del suo tempo (o di ogni tempo?), opera uno scandaglio estremo del suo pessimismo conoscitivo sulla malvagità dell’uomo che è l’estremo risultato dell’opera nefasta della natura che cosí lo crea, ma anche della società («Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi»[48]), che ne asseconda le spinte naturali egoistiche e sopraffattrici e mistifica tutto ciò in nome di ideali e valori, e insieme ne riconosce, proprio nella disperata sconfitta pratica, le possibilità ardue di una nuova società fondata appunto sulle radici fragili, ma fertili dei giovani, dei deboli ed oppressi, degli emarginati dal «mondo»[49] denudato sino in fondo nella sua vera realtà, cosí pur riannodandosi al decisivo momento della Ginestra.

Né tutto ciò vive, ripeto, fuori della sua consistenza di stile, varia di toni e di forme (fino a quelle del paradosso) e non perciò disorganica nella sua vera realtà di opera autonoma e nuova, ulteriore arricchimento, in prosa, della formidabile gamma di esperienze scrittorie di quest’ultimo Leopardi.

Intanto Leopardi era all’estremo delle sue forze fisiche, sempre piú stretto dal condizionamento economico[50] (che anch’esso, come quello della malattia, ha pur il valore di una esperienza conoscitiva importante), da una vita sregolata e abbandonata alla voracità morbosa (i famosi sorbetti napoletani), ostacolato dalla censura borbonica: quella censura che, demandata da Ferdinando II, non a caso, ad ecclesiastici, proibí nel ’36 la continuazione della pubblicazione dell’edizione Starita all’altezza delle piú chiare Operette morali e di cui amaramente e duramente Leopardi diceva in una lettera al De Sinner del 22 dicembre 1836: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto»[51], né mancava l’occhio vigile dello stesso Metternich che implacabile seguí, anche dopo la morte, la diffusione «pericolosissima della sua opera»[52], cosí come la Chiesa pose nell’Indice dei libri proibiti, ancora nel ’50, le Operette morali «donec corrigatur»!

E tuttavia (o perciò), in un supremo impeto di concentrazione totale egli poteva tornare alla «lirica» investendo, con la forza moltiplicatrice, lo sviluppo estremo della problematica svolta fra satire, poemetto e pensieri, già essa stessa tutt’altro che priva di commutazione poetica. E a parte l’appoggio che poté venire in tal senso dalla revisione, nel ’35, dei Canti per l’edizione Starita, con correzioni sintomatiche[53] e con una nuova rimeditazione e riappropriazione di tutta la sua poesia, proprio la vasta raggiera della battaglia ideologico-poetica (non pensiero in versi anche se meno liricamente proteso) e la prosa dei Pensieri preparano la base di un supremo esito di pensiero tutto potentemente commutato in poesia.

Cosí nel Tramonto della luna, la cui ideazione, nel ’36 – a mio avviso – anticipa quella della Ginestra[54] (si pensi al potente dilagare della luce del sole sorgente che si svilupperà nelle piú estese immagini e ritmi della Ginestra, al presupposto generale della compiuta indagine sul percorso biologico della vita umana in vista della conclusione pessimistico-eroica della Ginestra) il Leopardi definisce in una poesia di singolare lucidità, di scansione (tutta campita nel lungo inizio su di una similitudine e poi su di una scandita conclusione), e di ritmo, un pallido ritorno di idillio, anche se tanto meno impetuoso e sconvolgente della Ginestra, come piú gracile e lineare, ma ben caldo nel suo fondo posseduto ed energico: con la certezza della assoluta vanità della «speranza» e della «felicità» ora nettamente escluse, al di là della «bella giovinezza» (ma «dove ogni ben di mille pene è il frutto»), dallo sviluppo della vita matura e senile dell’uomo, destinato al male necessario e crudele della senilità e alla morte, designata materialisticamente come «sepoltura», cui presiedono per l’ultima volta forze oscure e malefiche, mitizzate con profonda e lucida ironia nei vecchi termini di lassú (nella Ginestra risponde un perentorio quaggiú), di Dei, Eterni, Immortali (nella Ginestra ne ricompare solo la larva nelle «fole» religiose[55]) che escogitano quel supremo male che è la vecchiaia, già invasa dal presentimento della morte (e di essa tanto peggiore perché tormentata dallo scontro fra il persistere del desiderio e la scomparsa della speranza[56]), poeticamente dispiegata nella sua indimenticabile stringata ed esauriente diagnosi:

D’intelletti immortali

degno trovato, estremo

di tutti i mali, ritrovar gli eterni

la vecchiaia, ove fosse

incolume il desio, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre, e non piú dato il bene.

Scompaiono definitivamente la felicità, la speranza, scompaiono i poteri celesti superiori, a lungo oggetto polemico di Leopardi, e l’uomo rimane solo con i propri fratelli, in duro contrasto con la natura di cui è completamente svelato, nella sua paurosa potenza ostile, quel volto «mezzo tra bello e terribile» che essa mostrava in quel supremo capolavoro delle Operette morali, che è il Dialogo della Natura e di un Islandese; ed essa diviene l’unico obbiettivo polemico e lo sfondo atroce (altro che «le meraviglie della natura» il cui sistema e quello connesso delle «illusioni» il Leopardi giovane aveva pur cosí a lungo cercato di difendere!) del drammatico poema filosofico-poetico della Ginestra dove tutte le piú mature e nuove forze di pensiero e di poesia (e di coraggio intellettuale e morale) del Leopardi trovano il loro strenuo e sconvolgente impiego di fronte alla morte: nella cui avvertita imminenza il grande intellettuale-poeta vuol nettamente distinguersi da tutti gli intellettuali del suo tempo (che ne lusingano le credenze spiritualistiche-ottimistiche) ad esprimere tutto il suo accumulato disprezzo per il «secol superbo e sciocco»:

[...] Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto.

Mentre nella complessa genesi della Ginestra anche il rapporto con Napoli si fa piú stringente e funzionale alla grande poesia, di cui il paesaggio napoletano-vesuviano fa da scena e base di accesso alla visione dei cieli infiniti, fra la visione del golfo («su l’arenoso dorso, a cui riluce / di Capri la marina / e di Napoli il porto e Mergellina»), i resti scheletrici di Pompei e la visione incombente (simbolo della potenza della natura) del «formidabil monte / sterminator Vesevo», che, del resto, Leopardi aveva a lungo osservato, nella sua terribile maestosità, già da quando abitava a Napoli sotto il colle di S. Elmo, come si legge in una lettera del 5 aprile 1834 al padre: «Son passato a godere la miglior aria di Napoli abitando in un’altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale contemplo ogni giorno il fumo e ogni notte la lava ardente»[57].

Ma soprattutto è nell’interrelazione fra le varie composizioni di questo periodo che meglio si chiarisce la genesi della punta ardente della Ginestra emergente al culmine di questa vasta e complessa raggiera di direzioni scrittorie e di sfaccettature della sua ideologia saldamente impiantata sulla verità e sulla conoscenza-esperienza della natura, degli uomini e della società in cui ora Leopardi, con suprema forza ideativa e poetica, stringe e proietta tutto il ricavo profondo della sua operazione filosofico-moralistica-poetica, in un appello-messaggio di «buona amara novella», aperto dal definitivo accertamento di un errore di fondo su cui gli uomini del suo tempo dirigono la loro ideologia e la loro prassi denunciata attraverso la citazione del versetto giovanneo: «e gli uomini preferirono le tenebre alla luce» (capolavoro rispetto al senso religioso e cristiano: la luce è la verità materialistica, atea, pessimistico-eroica, le tenebre sono la religione, il cristianesimo, le ideologie teo-antropocentriche)[58].

Ora egli vuole indicare la luce inquietante e stimolante della sua persuasa verità: la verità aperta dall’ardire del pensiero sperimentale-materialistico svoltosi dal Rinascimento all’ultimo Settecento (alle spalle il grande materialismo antico espresso in poesia dal grande Lucrezio, ma con quanta novità e romantico impeto agonistico!), proprio nel pieno di un’epoca che, a suo avviso, percorreva una strada a ritroso, un falso progresso, filosoficamente errato e sviluppato in una prassi individuale e sociale, incapace perciò di quel «vero progresso» di quella «vera società» che egli basava sul preliminare riconoscimento della disperata condizione degli uomini quale la Natura ha duramente fissato come perenne limite delle loro possibilità.

Sí che egli indirizza la sua complessa polemica finale anzitutto contro quegli intellettuali solidali (malgrado ogni diversa appartenenza) con gli inganni illusori della Natura e della società voluta dai detentori del potere mondano.

Perché l’intellettuale aggredito da Leopardi è, si badi bene, «astuto o folle» e mentre predica la perfettibilità umana, le magnifiche sorti e progressive dello spiritualista Mamiani, insieme priva il volgo, il popolo (di cui pur tanto parla con il suo paternalismo interessato) della conoscenza della verità, e cosí gli impedisce ogni possibile via verso una società dove regnino, non la impossibile felicità, ma una dignità di nuovi rapporti interpersonali, segnati da vera «giustizia e pietà», dove sia abolito quello che egli già chiamò il «pestifero egoismo» e la scellerata «realtà machiavellica», e si affermi «l’onesto e retto conversar cittadino» (conversar è il rapporto interpersonale, civile e sociale[59]), il vero amore schietto e severo, la fratellanza universale in vista del «ben comune», «stretta in social catena» nella lotta comune contro il «comune nemico», la Natura, in una tensione costante che non avrà mai fine, mai esito definitivo e vittorioso, mai risultato nella creazione di una società felice e di individui felici, assediata com’è dai limiti duri e invincibili della Natura con le catastrofi, con le malattie, con la vecchiaia e la morte, con la stessa malvagità dell’uomo che è parte della sua origine naturale, con il continuo riemergere di ideologie mistificanti e devianti, con nuovi problemi accresciuti su questo «oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome», esso stesso esposto alla catastrofe e all’annullamento nella vastità immensa dei mondi. E tuttavia (anzi perciò) gli uomini sono posti dal vero intellettuale, proteso alla sua unione con un volgo illuminato dalla verità di cui lui è nobile portatore (poiché «nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua / nulla al ver detraendo / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale»), di fronte ad una scelta decisiva fra le «tenebre» e quella «luce» che non garantisce nessun esito sicuro, è esposta a ritorni di oscurantismo e agli scacchi della sua difficile storia, ma che è doverosa, e solo capace, se accettata davvero, di avviare una rifondazione della società su basi vere e non illusorie, che spetta solo agli uomini di tentare.

Rotta per sempre la santa alleanza dell’uomo con la natura, e tolto alla natura ogni fine provvidenziale e rassicurante, come ogni specie di potere divino, sorprendentemente il Leopardi trova coincidenza con le conclusioni delle piú ardite scienze attuali, come quelle recenti del grande biologo Jacques Monod nel suo libro Le hazard et la nécessité: «L’ancienne alliance est rompue; l’homme sait enfin qu’il est seul dans l’immensité de l’univers d’oú il a émergé par hazard. Non plus que son destin, son devoir n’est écrit nulle part. À lui de choisir entre le Royaume et les ténèbres»[60]. Ma per Leopardi anche il «regno», il «regnum hominis», è privo di ogni sacralità e di ogni enfasi prometeica, di ogni prospettiva di società ludica e felice, e piú che un «regno», facilmente raggiungibile e sicuro, è una lotta doverosa e strenua, forse, al limite, inutile, e che pur è l’unica via che l’uomo può (e deve) tentare per una società, non felice, ma giusta, libera e pietosa, totalmente fondata sulla verità intera («nulla al ver detraendo» è il piú vero blasone araldico del Leopardi): la verità intera che sol cosí è veramente rivoluzionaria, dovuta a tutti, abolendo cosí ogni cesura («l’ozio dei potenti», da una parte, e dall’altra il «villanello / intento ai vigneti, che a stento in questi campi / nutre la morta zolla e incenerita» «e il picciol campo / che gli fu dalla fame unico schermo»[61]) fra ceti privilegiati e ceti subalterni, quando la verità materialistica ed atea, la verità del nostro «basso stato e frale» nemico della natura (che «de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna»), stringendo tutte le forze e gli interessi degli uomini contro di lei e stabilendo cosí una salda «social catena», considerando con «vero amore» (un amore non vagamente umanitario, ma severo e antiegoistico) tutti gli uomini come «confederati» nella «guerra comune», contro la Natura, superando le stolte guerre fra gli uomini, potrà consistere e svilupparsi.

Piú che nel gramsciano «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà» il messaggio leopardiano si conclude senza richiami a nessuna specie di ottimismo, con un dovere e scatto della volontà, comandati, a ben vedere, proprio dall’estremo e coerente pessimismo alla lotta contro la natura e per la fondazione di una nuova società[62].

Pessimismo eroico che, liricamente commutato, anima la struttura, il ritmo, le forme nuovissime di questa grande poesia, la sua unità dinamica (non l’unità immobile cercata dalle interpretazioni idealistiche e puristiche), il suo incessante e impetuoso procedere di colata lavica e incandescente, di cui è esempio centrale la piú diretta rappresentazione in movimento dell’eruzione e della colata della lava, inquadrata nella similitudine profondamente significativa degli uomini con le formiche (si ripensa a un formidabile passo stendhaliano di Le rouge et le noir), con il suo ritmo travolgente e accelerato, poi riportato alla misura sobria e densa della conclusione poetico-riflessiva senza censure, con lo sprigionarsi di una luce ignea e funerea dall’attrito di quella materia lacerata e violentata, con la novità di una forma che cerca, piú che la bellezza, la tensione di una furia profonda e sconvolgente, disprezza ogni regola di buon gusto e di décor neoclassico: ciò che è ben riscontrabile nella stessa maniera del comporre leopardiano, che in questa rappresentazione, come in tutta la Ginestra, utilizza moltissimi brani ed espressioni di scrittori precedenti (specie dalla zona congeniale pessimistica del ’700 illuministico e preromantico[63]) ma appropriandosi di esse non nella forma della mellificazione o dell’intarsio, bensí scagliandole a piene mani nel magma ardente della tensione espressiva:

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui là nel tardo autunno

maturità senz’altra forza atterra,

d’un popol di formiche i dolci alberghi,

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre

e le ricchezze ch’adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto, cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e città nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom piú stima o cura

che alla formica: e se piú rara in quello

che nell’altra è la strage,

non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

O ne è altro esempio il grande notturno pompeiano che richiama e supera, con tanta nuova forza moderna, echi dei Sepolcri foscoliani e tanta poesia delle rovine fra illuminismo e preromanticismo[64], qui inasprita in un eccezionale tormento della materia rappresentata:

Torna al celeste raggio

dopo l’antica obblivion l’estinta

Pompei, come sepolto

scheletro, cui di terra

avarizia o pietà rende all’aperto;

e dal deserto foro

diritto infra le file

dei mozzi colonnati il peregrino

lunge contempla il bipartito giogo

e la cresta fumante,

che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell’orror della secreta notte

per li vacui teatri,

per li templi deformi e per le rotte

case, ove i parti il pipistrello asconde,

come sinistra face

che per vòti palagi atra s’aggiri,

corre il baglior della funerea lava,

che di lontan per l’ombre

rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Di fronte a tale forza di unità dinamica apparirà tanto piú assurda la vecchia pretesa di separare poesia da presunto nudo discorso filosofico e oratorio nella struttura complessa e organica della Ginestra, di cui ben si avverte la continuità di tono e di ritmo proprio nel grande brano centrale dove la stessa lunghissima strofa tentacolare, sostenuta dal ritorno calcolato e ossessivo della parola «punto» (e «appunto») con le sue rime anche interne è, come in tutta la Ginestra, non solo una sperimentazione metrica e ritmica arditissima e inaudita, ma funzione del ritmo interno pensiero-poesia che, partendo dalla contemplazione del cielo e slargandosi nel vertiginoso aprirsi di spazi infiniti, ne capta e ne fa esplodere la carica riflessivo-poetica come sua estrema e coerente conclusione di verità, espressa-impressa e moltiplicata dalla poesia.

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente; e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Né si tratta di alti brani isolati, di squarci isolati di grande poesia, bensí di culmini entro una struttura audacissima di «sinfonia eroica» sempre sostenuta da impeti veementi nella sintassi e nel linguaggio («vigliaccamente», il «fetido orgoglio»: tracce anche della congeniale presenza dell’Alfieri piú linguisticamente innovatore e moralmente indignato[65]), senza tempi di «scherzo», e con «adagi» profondamente malinconici e mai privi di una chiusa ascendente ed energica. Come avviene nella lunga strofa di apertura in cui tutto collabora ad un paesaggio desolato e devastato: la campagna brulla intorno a Roma, decaduta dal suo antico potere, la campagna vesuviana (l’«arida schiena» del Vesuvio, «questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dall’impietrata lava, / che sotto i passi al peregrin risona; / dove s’annida e si contorce al sole / la serpe, e dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio»), dove tutto, dal livido colore al suono cupo dei passi, all’inaudita fisicità coerente dei rari esseri viventi e selvaggi – il serpente, il coniglio selvatico – còlti in questa solitudine nello spasimo del loro movimento, tutto collabora a questo concreto e materico paesaggio che è insieme metafora del deserto della vita, in cui il singolarissimo fiore (non la rosa[66] o altro fiore della tradizione, ma la gentile e solitaria selvaggia ginestra) vale insieme per la concreta realtà di una bellezza inconsueta e non sontuosa e preziosa e per quel significato di solitudine e di consapevolezza della propria fragilità, del proprio destino, esente dalle stolte credenze e dallo stolto orgoglio dell’uomo, ma virilmente contrassegnata da una ferma dignità, da una non codarda preventiva accettazione del suo oppressore.

E ciò è ben confermato dal suo ritorno finale (la ginestra compare solo nella strofa di apertura e in quella finale, come immagine di una consapevolezza e di un comportamento che all’interno del canto trovano i loro svolgimenti piú complessi ed energici, le loro esplicazioni piú ardite che non possono risolversi tutte nella decifrazione puntigliosa della loro corrispondenza con la consistenza del fiore del deserto[67]), finale dove essa soprattutto emerge, nella strofa che sale dall’impostazione piú adagiata e mesta alla conclusione incalzante, a denunciare compendiosamente e definitivamente l’ottusità dell’uomo nelle sue ideologie perverse (altrove dirà: «sogni e deliri della mente umana») e nel perpetuo rampollare radicale di queste se gli uomini non accertano l’aspra lezione della verità espressa nel corso del canto:

E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate

queste campagne dispogliate adorni,

anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco,

che ritornando al loco

già noto, stenderà l’avaro lembo

su tue molli foreste. E piegherai

sotto il fascio mortal non renitente

il tuo capo innocente:

ma non piegato insino allora indarno

codardamente supplicando innanzi

al futuro oppressor; ma non eretto

con forsennato orgoglio inver le stelle,

né sul deserto, dove

e la sede e i natali

non per voler ma per fortuna avesti;

ma piú saggia, ma tanto

meno inferma dell’uom, quanto le frali

tue stirpi non credesti

o dal fato o da te fatte immortali.

La Ginestra, con tutto l’enorme fascio delle sue proposte e della sua possente e complessa poesia, lungi dal consolarci e dal rassegnarci, ci turba e sommuove i piú profondi strati del nostro essere umano, provoca una inquietudine profonda e orientata che ci sprona a rimeditare tutti i nostri problemi fondamentali di uomini alla luce del suo messaggio centrato sulla via di una prassi civile, morale, sociale, di un comportamento di dignità e volontà privo di ogni illusione e speranza. Una poesia che, da una parte, realizza l’energica sentenza leopardiana: «il sentimento se non è fondato sulla persuasione è nullo»[68], dall’altra e insieme, ben si riporta a quello che per Leopardi è sempre stato il vero fine della poesia, non consolatorio e non catartico, quello (come lui dice nello Zibaldone nel ’23[69]), di cagionare «nell’animo dei lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni», perché la poesia «ci dee sommamente muovere ed agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma», deve mettere il lettore «in attività e farlo sentire gagliardamente», «E una poesia – dice egli ancora in proposito dei drammi a lieto fine – che lascia gli affetti dei lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? Che altro vuol dire esser in pieno equilibrio se non esser quieti e senza tempesta né commozione alcuna? e qual altro è il suo proprio uffizio e scopo della poesia, se non commuovere, cosí o cosí, ma sempre commuover gli affetti?».

Tale è soprattutto la poesia della Ginestra, che non ci lascia «in calma e in riposo» e ci apre all’inquietudine attiva del suo intero messaggio per la sua verità, per la sua direzione centrale (la verità dovuta a tutti, il ben comune, l’amore vero), per l’enorme sollecitazione della poesia, la piú grande dell’epoca moderna, rivoluzionaria come i suoi contenuti, nella sua centrale e irradiata potenza espressiva-impressiva.

E se la Ginestra non è, per fortuna, un trattato e non decifra minutamente in tutte le implicazioni e in una delineazione compiuta di tutta la sua messe di indicazioni (e quindi non anticipa precisamente il possibile momento della sua riconversione nella storia: la sua onda è lunga, piú lunga del nostro stesso incontro con lei[70]), certo è che il suo messaggio (tanto diverso per spessore ideologico-poetico da ogni proposta sociale del primo Ottocento, dagli stessi generosi sogni del socialismo utopistico, dalle stesse poesie-messaggio piú ardite dell’epoca romantica a livello europeo: il Prometheus unbound di Shelley o la Bouteille à la mer di Vigny) giunge fino a noi, carico di futuro (già in un pensiero del ’27 egli pensava ad una lettera a un giovane del secolo XX sulla «grande opera della civilizzazione»[71]), ci porta l’intera parola di questo supremo contestatore dei sistemi della Restaurazione e del moderatismo liberale spiritualistico, della civiltà e società capitalistico-borghese in ascesa, ancora parla potentemente a noi, inquietante e rigoroso, e ci sollecita a rifiutare ogni nuova versione religiosa, spiritualistica, evasiva, ogni trionfalismo ottimistico antropocentrico, prometeico, a contestare gli esiti disumanizzati di quella società borghese che egli aveva aggredito ai suoi inizi, a tentare, senza miti e senza speranze futili, una rifondazione della politica e della società, un comportamento personale e interpersonale totalmente diverso e capace di quella vera virtú e dignità, di quel vero amore, di quella vera fratellanza che soli possono (senza nessuna garanzia trascendente o storica) aprire il varco arduo a una vita di liberi ed eguali (egli del resto aveva già detto: «la perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà»[72]), meno ingiusta e oppressiva di quella di cui noi stessi facciamo dolorosa esperienza. Solo cosí, disposti a comprendere Leopardi nel senso profondo della sua poesia nei suoi esiti supremi, possiamo tornare a visitare i luoghi della sepoltura, non per consolare e placare con le nostre onoranze chi non volle mai essere consolato e placato neppure da morto (Leopardi è fuori della via pur altissima della foscoliana laica religione delle tombe[73]), ma per meditare ancora sulla intera parola intellettuale-poetica che qui, nella vostra città, di fronte alla morte vicina, trovò la sua irraggiante suprema consistenza e spalancò, con mano ferma e impaziente, le porte di un lungo futuro che tutti ancora ci coinvolge e ci supera, tutto affidato, entro i limiti ferrei della nostra condizione naturale e morale, alla scelta e alla volontà, all’autonoma dovere, all’intelligenza e al coraggio strenuo degli uomini.


1 Per il De Sanctis, interprete di Leopardi, rinvio alla mia edizione critica e commentata di Giacomo Leopardi (Bari, Laterza, 1953), al mio saggio De Sanctis e Leopardi in Carducci ed altri saggi (Torino, Einaudi, 1960, 19804) e alla postilla dell’edizione del ’72 di quel libro che meglio commisura il valore e i limiti storico-ideologici dell’interpretazione desanctisiana. Si veda poi il libro di due miei allievi, N. Bellucci Celli e N. Longo, F. De Sanctis e G. Leopardi fra coinvolgimento e ideologia, Roma, 1980, che prende avvio da quella mia sopracitata postilla.

2 Rimando alla mia presentazione della nuova edizione del saggio di Luporini (sotto citato) al Gabinetto Viesseux riportato nella «Antologia» 1980 e in questa rivista, che piú largamente descrive la situazione mia e di Luporini fra ’35 e ’47, nelle diverse e comuni condizioni anche politiche (comune appartenenza ai gruppi «liberalsocialisti» dal 1936 e poi militanza comunista per Luporini e militanza socialista per me che proprio nel ’47 ero deputato socialista all’assemblea Costituente) da cui nacquero i nostri saggi leopardiani del ’47.

3 Linea e momenti della lirica leopardiana (in «Celebrazioni marchigiane», Macerata, 1935), breve saggio nato da una tesina universitaria del ’34 (discussa con Attilio Momigliano a Pisa, e poi ridiscusso nel ’36 con Gentile, Pasquali, Russo) piú vasta base del mio libro del ’47, sviluppato anche sulla ripresa di un corso all’Università per Stranieri di Perugia nel 1945. L’articolo del ’35 ebbe scarsa diffusione e solo nel ’47 trovò segnalazione e diretta ripresa nel III volume del Compendio della storia della letteratura italiana di N. Sapegno.

4 Firenze, Sansoni, 1947 (19744) con l’aggiunta in appendice di Tre liriche di Leopardi, Lucca, Lucentia, 1950. Nel 1946 era uscito il III volume (Ottocento) da me curato dell’antologia Scrittori d’Italia, Firenze, La Nuova Italia (piú volte ristampato) con una vasta scelta e commento di poesie e prose leopardiane.

5 Leopardi progressivo in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947, ripubblicato quest’anno presso gli Editori Riuniti di Roma con una premessa che esprime autocritiche su punti suggeriti in parte dai miei studi e in parte da quelli di Timpanaro. Luporini aveva già pubblicato nel ’38 un saggio Il pensiero di Leopardi (nell’«Annuario del Liceo Scientifico» di Livorno) in chiave esistenzialistica, che io singolarmente (ignaro del suo nuovo e ben diverso saggio uscito nel 1947 un mese dopo il mio volume) attaccai per il suo esito religiosizzante in una nota della Nuova poetica. Nel 1948 sul «Nuovo Corriere» di Firenze (giornale di sinistra) io infatti recensii il saggio di Luporini, fortemente sottolineandone tutta la feconda novità, ma non tanto e non solo (come fecero altri) insistendo sulla importanza di considerare globalmente l’intellettuale, ma soprattutto il poeta, quanto affacciando dubbi sull’impatto dell’«onda lunga» di Leopardi nella storia che, per Luporini, mi sembrava troppo coincidere con l’avvio del marxismo (io socialista massimalista e libertario) e dello sviluppo del socialismo «reale» sovietico («Egli si trovava su un’onda piú lunga. Sí un’onda piú lunga: ma piú lunga di qualsiasi onda che approdi ad una civiltà che si consideri ottimisticamente definitiva nella sua sostanziale struttura e contro cui Leopardi sarebbe ricorso al suo rigore assoluto di malpensante, alla sua nuda persuasione antimito, che, lungi da ogni scetticismo di conservatore, lo rendeva piú «progressivo» di ogni limitata rivoluzione»). Mentre d’altra parte ribadivo la formula del Leopardi eroico in una recensione su «L’Italia che scrive» del 1942 al libro di F. Figurelli, Leopardi, poeta dell’idillio, Bari, 1941, estrema e consequenziaria proiezione della nota tesi crociana. Ora si veda per una spiegazione di quella mia stessa recensione la mia citata presentazione della recente ristampa in libro del saggio di Luporini al Gabinetto Viesseux di Firenze.

6 Si ricordino almeno G. L. Berardi, Ragione e stile in Leopardi, in «Belfagor», 1963; B. Biral, La posizione storica di Leopardi, 1974; G. Savarese, Saggi sui Paralipomeni di G. Leopardi, Firenze, 1966. Per Timpanaro essenziali restano i saggi leopardiani nel suo Classicismo e illuminismo nell’800 italiano, Pisa, Nistri e Lischi, 1965, 19692. I suoi ulteriori interventi polemici leopardiani sono soprattutto comparsi in «Belfagor».

7 La poesia eroica di G. Leopardi, 1960, Leopardi e la poesia del secondo Settecento, 1962, l’introduzione a Tutte le opere di Leopardi (Firenze, Sansoni, 1969, 1975).

8 Si ricordino, a vario livello di scritti e problematicità, il breve intervento di C. Salinari a proposito del Manzoni su «Critica marxista», 3, 1973 (e la giusta risposta di E. Sanguineti sulla stessa rivista) sul confronto fra il pessimismo dello sradicato Leopardi e il «progressismo» del Manzoni, «intellettuale organico» della classe borghese in ascesa; lo scorretto e disinformato saggio leopardiano di N. Jonard, Leopardi fra conversazione e progressismo (in Il caso Leopardi, a c. di G. Petronio, Palermo, Palumbo, 1974) che presenta un Leopardi addirittura reazionario; il saggio leopardiano di U. Carpi (in Il poeta e la politica, Napoli, Liguori, 1978) con cui implicitamente discuto già nelle precedenti righe di questo discorso e poi ho lungamente discusso nel dibattito del pomeriggio del 23 aprile di quest’anno, alla tavola rotonda di Napoli. Si ricordi anche il piú recente volume, per altre parti pur interessante, di un giovane F. P. Botti, La nobiltà del poeta, Liguori 1979, specie per i saggi proprio sui canti del periodo napoletano e in particolare sulla Ginestra la cui «soluzione solidaristica» riproporrebbe «una nuova mistificazione della realtà che oggettivamente non si saprebbe definire altrimenti che elusiva» («un’impostatura di sapore laico e materialista») che «sembra aver contagiato uno dei filoni piú vitali e stimolanti della critica leopardiana»; quello che il Botti chiama dei «patrocinatori del Leopardi eroico» e della «leggenda leopardiana».

9 Per questo attacco storico che ben converge – entro la sollecitazione della passione amorosa – con l’esaltazione del Leopardi «eroico» e protestatario, riporto questi versi da Amore e Morte, essenziali anche a segnar la continuità fra i canti fiorentini e l’aperta aggressione al proprio tempo nelle composizioni poetiche del periodo napoletano. Non solo in Amore e Morte l’accenno di sapore hölderliniano (per il popolo tedesco e «gedankenvoll, tatenlos») al coraggio destato da amore per cui «sapiente in opre, / non in pensier invan, siccome suole, / divien l’umana prole», e il celebre passo finale contro la credenza religiosa e ultramondana perdurante («ogni vana speranza onde consola / se coi fanciulli il mondo, / ogni conforto stolto»: i «conforti religiosi»!), ma, nel Pensiero dominante, il preciso confronto di se stesso con il proprio tempo: «Di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtú nemica, / stolta, che l’util chiede, / e inutile la vita / quindi piú sempre divenir non vede; / maggior mi sento». Si pensa al generale Assaggiatore dei Paralipomeni che non vuole ciance, ma azioni sorrette da un pensiero vero e sicuro (il pensiero materialistico ed ateo). Né occorre ricordare – tanto è noto – l’attacco al proprio tempo del Dialogo di Tristano e di un amico del ’32.

10 In Tutte le opere già cit. (a cura di Walter Binni e con la collaborazione di E. Ghidetti) I, pp. 238-239, da cui si citano le opere, tranne le lettere per cui ci si rifà all’edizione del Moroncini.

11 Ci si riferisce agli interventi numerosi e futili in vari giornali e settimanali sull’edizione del celebre libro di A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, a c. di G. Cattaneo con postfazione di A. Arbasino, Mondadori, 1979. Inaccettabile obbiettivamente è, ad esempio, l’ipotesi di un legame omosessuale fra i due sodali: Leopardi fu chiaramente eterosessuale, profondamente attratto dalla bellezza femminile nei suoi tratti piú vistosi («al seno ascoso e desiato») e particolari («ed alla mano offertami / candida ignuda mano»), chiamò la pederastia «infame» pur dandone una vitalistica spiegazione della sua diffusione fra gli antichi. E l’effusione passionale dei celebri biglietti del ’33 al Ranieri, mentre è come un riflesso della passione per Fanny, si spiega bene nella Stimmung sentimentale-scrittoria dell’epoca romantica.

12 A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi cit., p. 146.

13 Lettera al padre del 5 ottobre 1833 in G. L., Epistolario, a c. di F. Moroncini, VI, Firenze, 1940, p. 260.

14 Cfr. le lettere al padre del 3 febbraio 1835 (Epistolario cit., II, p. 277) e del 27 novembre 1834. Per altri accenni ironici alla «civilissima città» cfr. la lettera al padre dello stesso 27 novembre 1834 o direttamente polemici contro il «paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli perché veramente barbaro, assai piú che non si può mai veramente credere da chi non vi è stato o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità», cfr. la lettera al padre del 9 marzo 1837 (Epistolario cit., VI, p. 349).

15 Fra le numerose lettere sue ed altrui che convalidano questa relativa ripresa della salute si veda quella al padre del 5 marzo 1836 (Epistolario cit., VI, pp. 318-319) in cui L. dice: «Io da un anno e mezzo non posso che lodarmi della mia salute, ma soprattutto da che, circa un anno fa sono venuto ad abitare in un luogo di questa città quasi campestre, molto alto e d’aria asciuttissima, e veramente salubre. Vengo scrivacchiando ecc.». L’alloggio cui si allude è quello di Vico Pero dove termina l’abitato di Napoli verso nord, dalla parte di Capodimonte: il Leopardi vi passò ad abitare il 9 maggio 1835 e vi rimase (tranne che nei soggiorni a Torre del Greco, nella villa delle ginestre del Ferrigni, dal primo aprile alla fine di giugno del ’35 e dal 20 agosto ’36 al 15 febbraio ’37) fino alla morte. Ma già prima, mentre nella lettera del 5 aprile 1834 alla Maestri, dichiara che comunque «l’aria di Napoli mi è di qualche utilità» anche se subito aggiunge «ma nelle altre cose questo soggiorno non mi conviene molto...» (Epistolario cit., VI, p. 267), nella lettera del 3 ottobre ’35 al De Sinner (Epistolario cit., VI, p. 300) meglio precisa la ripresa della salute e del lavoro intellettuale e scrittorio: «io dopo quasi un anno di soggiorno in Napoli, cominciai finalmente a sentire gli effetti benefici di quest’aria veramente salutifera; ed è cosa incontrastabile ch’io ho recuperato qui piú di quello che forse avrei potuto sperare. Nell’inverno passato potei leggere, comporre e scrivere qualche cosa: nella state ho potuto attendere (benché con poco successo quanto alla correzione tipografica) alla stampa del volumetto che vi spedisco; ed ora spero di riprendere in qualche parte gli studi, e condurre ancora innanzi qualche cosa durante l’inverno». Dunque la ripresa coincide all’incirca con l’autunno del 1834, e l’inverno cui Leopardi accenna è appunto l’inverno ’34-35 e la «state» è quella del ’35 quando sistemò l’edizione Starita dei Canti («il volumetto» ricordato nella lettera) rivista sulle bozze del Ranieri (data la persistente debolezza e malattia degli occhi). Il secondo «inverno» cui Leopardi allude è quello del ’35-36. Circa il giudizio di Leopardi sugli effetti dell’aria di Napoli sulla sua salute o su quelli delle stagioni (indipendenti dall’aria di Napoli), esso è oscillante, specie all’inizio del suo soggiorno (anche in relazione alle sue abitazioni in zone piú o meno aperte ed alte della città), ma le affermazioni sopra citate confermano la consapevolezza leopardiana degli effetti benefici di quell’«aria veramente salutifera». Per le abitazioni di Leopardi con Ranieri e Paolina Ranieri, esse possono identificarsi come segue: all’inizio la breve abitazione in Via San Mattia 88, vicino a Toledo, poi, per diciotto mesi, a Palazzo Cammarota, in Via Nuova Santa Maria Ognibene sulle pendici del Vomero, poi, nel maggio 1835, a Capodimonte, con soggiorni a Torre del Greco nella «villa delle ginestre» del Ferrigni cognato del Ranieri (da aprile a giugno ’36 e da agosto ’36 a febbraio ’37).

16 Piú che di preciso «ingorgo di platonismo e di materialismo» (come io dicevo nella Nuova poetica leopardiana), e d’altronde senza accettare la semplicistica riduzione alla sola dimensione del sensismo (come fa F. Brioschi in Ars amandi ars moriendi, in «Modern Language Notes», 1976), ma rafforzando entro il maturo materialismo leopardiano una componente e l’impeto, pur ideologico (secondo l’avvertimento utile, anche se un po’ gracilmente realizzato, del Bigi nel saggio Passione e ideologia, in Studi in onore di G. Trombatore, 1973), che non manca di vicinanze con Platone, combattuto per il suo metafisico spiritualismo, ma ammirato per la sublime «astrazione» della mente (v. Zibaldone, 16 settembre 1821, in Tutte le opere cit., II, pp. 428-429), mi pare di dover parlare di un convergere, ripeto entro e in attrito con il materialismo, di un movimento di orgogliosa creatività della mente dell’uomo e dell’intellettuale-poeta creatore di una autonoma idea femminile inevitabilmente imparagonabile (si pensi a Alla sua donna in un clima cosí diverso) con la donna reale. Del resto – in appoggio – si ricordi che fra le «fonti» di Aspasia (a parte la Libertà metastasiana anche troppo citata) forte è, a mio avviso, la presenza del celebre sonetto del Guidi («Non è costei della piú bella Idea / che lassú splende a noi discesa in terra; / ma tutto il bel che nel suo volto serra / sol dal mio forte immaginar si crea») (cosí caro in chiave misogina, «sdegnatevi e non peccherete», anche al Foscolo dei Vestigi della storia del sonetto italiano) e certo noto al Leopardi che dal Guidi riportò alcuni componimenti nella Crestomazia poetica.

17 L’acquisizione dell’assoluto materialismo che distrugge ogni vera alterità fra «spirito» e «corpo» avviene nei grandi pensieri metafisici dello Zibaldone del ’26-27, quando emerge appunto la perentoria asserzione che la «materia può sentire e pensare», sottolineata dal Leopardi nel pensiero del 9 marzo 1827 (Tutte le opere cit., II, pp. 1152-1153) e confermata nell’altro decisivo pensiero del 18 settembre 1827 circa il carattere «paradossale» dello spiritualismo di ogni tempo, a cui è apparso «paradosso» ciò che è viceversa ovvio e vero, cioè appunto «la materia pensante» (Tutte le opere cit., II, p. 1149). Ma è chiaro che il lucido materialismo leopardiano cosí totale è anche capace di autointerrogazioni, di ampliamenti e ribadimenti come quelli che si svolgono nelle due canzoni sepolcrali che ne provano proprio il carattere non inerte e non scolastico, cosí fermentante e cosí ricco di implicazioni problematico-poetiche, quanto piú si capisce il fondo dinamico e inquieto della grande personalità leopardiana matura e il suo enorme potenziale riflessivo-poetico specie alla prova dei risultati di esperienze profonde come è quella della «passione fiorentina» e del suo risultato proiettato nel periodo e ripensamento napoletano fra Aspasia e appunto le Sepolcrali. Dalle Sepolcrali, in definitiva, il materialismo leopardiano esce rafforzato e, a ben vedere, lo stesso «mistero eterno dell’esser nostro» non crea una contraddizione insanabile nel complesso materialismo leopardiano se Leopardi (che aveva già raffigurato, per bestemmiarlo ferocemente, nell’abbozzo dell’Inno ad Arimane, un Dio del male, autore neroniano di tutti i nostri mali e «misteri») può render bene evidenti i creatori (Dio, la Natura) della nostra tragica condizione esistenziale. A ben vedere (e pur sapendo l’ampiezza di spazi e problemi che la poesia materialistica di Leopardi crea) non c’è, specie in quest’ultimo periodo di conclusione del difficile e complicato iter leopardiano, vero limite di mistero e di arcano, come vorrebbero i fautori di ritorni travestiti di visioni irrazionalistiche, misticheggianti, lieti di ogni possibile appiglio di «crisi della ragione» e di crisi del materialismo, magari professandosi materialisti e materialisti dialettici e storici.

18 «Già se sventura è questo / morir che tu destini / a tutti noi che senza colpa, ignari, / né volontari al vivere abbandoni, / certo ha chi more invidiabil sorte / a colui che la morte / sente de’ cari suoi. / Che se nel vero, / com’io per fermo estimo, / il vivere è sventura, / grazia il morir, chi però mai potrebbe, / quel che pur si dovrebbe, / desiar de’ suoi cari il giorno estremo, / per dover egli scemo / rimaner di se stesso, / veder d’in su la soglia levar via / la diletta persona / con chi passato avrà molt’anni insieme, / e dire a quella addio senz’altra speme / di riscontrarla ancora / per la mondana via; / poi solitario abbandonato in terra, / guardando attorno, all’ore ai lochi usati / rimemorar la scorsa compagnia? / Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre / di strappar dalle braccia / all’amico l’amico / al fratello il fratello, / la prole al genitore, / all’amante l’amore: e l’uno estinto, / l’altro in vita serbar? Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal? Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura». Questa appassionata domanda della prima sepolcrale – nella lunga strofa finale che si chiude con la ribadita indifferenza della natura rispetto alla nostra sorte – richiama uno degli autori, l’Alfieri (v. il mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento), che piú hanno avuto importanza congeniale con Leopardi, specie sul tema del «sopravvivere amando» svolto in alcune rime assillate dal problema del rapporto, nella futura sicura separazione nella morte, con l’amata contessa d’Albany. L’Alfieri sarà di nuovo, in altra direzione, ben presente a quest’ultimo Leopardi nella Palinodia con le sue Satire e il loro linguaggio prosastico poetico innovatore e nella stessa Ginestra, come ho notato già nella Protesta di Leopardi cit., p. 204, a proposito del «vigliaccamente rivolgesti il dorso» o al «fetido orgoglio» e alla loro outrance linguistico-poetica.

19 Accertai già certe consonanze-divergenze feuerbachiane nella mia Protesta di Leopardi cit., p. 10 n. (a proposito dell’«eterno sospiro mio» per Nerina nelle Ricordanze e del «t’amerò in eterno: cioè finché avrò vita» di Feuerbach, che cosí ben chiarisce il limite-illimite dell’«eterno», si potrebbe ragionare a lungo e piú sull’alienazione religiosa). Nicola Badaloni dice, nell’importante pagina dedicata alla Ginestra (Storia d’Italia dell’editore Einaudi, III, 1973, p. 926): «Il principio di amore... (della Ginestra) ha ben poco a che fare con le versioni francesi del socialismo utopico, ma ha semmai alcuni punti di contatto col materialismo dell’altro bayliano della cultura europea, il Feuerbach, anche se passando attraverso un piú accentuato rifiuto della fondazione naturalistica del principio di amore ed una piú rigorosa consapevolezza della sua genesi e del suo valore unicamente sociale».

20 Altro che (per stare alle ipotesi pur fisiche della morte dell’età sette-primoottocentesca) la rapida raffigurazione di Ippolito Pindemonte, nell’Epistola al Foscolo I sepolcri, della morte della Mosconi (in attesa della «resurrezione dei corpi» il cadavere della donna amata si decomporrà nella terra dando vita a «fiori», cfr. I. Pindemonte, Le poesie originali, a c. di A. Torri, 1858, pp. 256-257), o la «ruhige Verwesung» (la tranquilla decomposizione) del teista-massonico Matthias Claudius nel suo inno massonico (cfr. Freimaurer Lied in Sämtliche werke, München, s.d.)! Semmai qui il Leopardi sente la suggestione (in direzione atea e materialistica) delle acri immagini del disfacimento del cadavere del superstizioso e ultracattolico Varano in alcune delle sue Visioni sacre e morali, cosí importanti, con il suo linguaggio fisico, con il loro gusto del corroso, del purulento (cfr. il mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento), per Leopardi che antologizzò, non a caso, le poesie del Varano in misura eccezionale, nella sua Crestomazia poetica. Per Varano nel preromanticismo italiano, autore che porta la sua presenza stimolante fino alla Ginestra entro il suo gusto di rovine e catastrofi e visioni luttuose, rimando alle pagine a lui dedicate nel mio Preromanticismo italiano, Napoli, E.S.I., 1947 e poi Bari, Laterza, 1974.

21 Per i miei dissensi con Manzoni si veda il mio lontano saggio Manzoni e la rivoluzione francese del ’41 (poi in Critici e poeti dal Cinquecento al Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693) e il capitolo manzoniano nel III volume della mia (e di R. Scrivano) Storia e antologia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1970 e segg. Ovviamente io mi trovo in posizione antitetica a quella del compianto C. Salinari (in «Critica marxista», 3, 1973) sul Manzoni «intellettuale organico» della borghesia in ascesa e in contrasto con il «pessimista» e sradicato Leopardi, che avviò una querelle piuttosto pretestuosa, ma non inutile a meglio chiarire proprio la grandezza storica e attuale di Leopardi. «Se l’Italia avesse potuto essere piú leopardiana che manzoniana» mi son detto piú volte! Ma Leopardi era troppo superiore al suo tempo e a tutto il Risorgimento italiano, sicché solo in tempi relativamente recenti se ne è compresa la grandezza. Ed egli stesso (il grande contestatore del proprio tempo che invita tanto piú alla lotta proprio perché quest’invito è «ancorato al suo pessimismo» – come dice Luporini in una recente intervista su Sartre differenziato su questo punto dal grandissimo Leopardi, «Rinascita», 25 aprile 1980) ben sentiva che il suo messaggio civile-ideologico-poetico andava al di là del suo tempo, se egli preparava appunti per «una lettera» a «un giovane del secolo XX» in un suo grande pensiero sulla «grande opera della civilizzazione» (Zibaldone in Tutte le opere cit., II, p. 1145, 13 aprile 1827). Quel messaggio si realizzò poi nella Ginestra. In certo senso quei «giovani del secolo XX» fummo proprio Luporini ed io nel 1947 (e poi tanti altri a cominciare da Timpanaro) e ora sono i giovani e «vecchi giovani» che continuano a nutrire le loro prospettive della sua poesia e del suo pensiero; e penso che lo saranno anche i giovani del secolo XXI e chissà di quanti secoli a venire se la razza umana sopravviverà alle follie, ai «sistemi» scellerati che la possono condurre alla distruzione nonché a non impossibili catastrofi naturali dell’«oscuro granel di sabbia il qual di terra ha nome».

22 L’appellativo di «candido» non può assolutamente esser casuale e attenuativo (anche se volutamente ambiguo) in un lettore cosí attento di Voltaire e specie delle sue opere piú pessimistiche e «antiottimistiche». Del resto che la polemica investa tutto l’ambiente fiorentino cattolico-liberale è ben confermato dalle note recriminazioni private del Capponi contro quel «gobbo maledetto», malgrado la lettera piú calcolata e falsa di ringraziamento rivolta al Leopardi. Capponi era tutt’altro che privo di pieghe pessimistiche, ma esse erano involte e risolte in quella prospettiva che Leopardi attaccava. Circa Tommaseo ovvio è ricordare che proprio nel periodo l’antipatia di Leopardi prese i toni di un odio profondo vedendo Tommaseo in tutte le mene contro di lui, la sua sperata sistemazione a Parigi, la pubblicazione delle sue opere in Francia. È di quest’epoca l’epigramma antitommaseano; e persino i rapporti con il Poerio risentirono della simpatia di questi per Tommaseo.

23 «Massa» è parola odiosa, e non a torto, a Leopardi, laddove egli precedentemente soleva piuttosto parlare positivamente di «moltitudine» che, a ben vedere, è tutt’altra cosa: una collettività fatta di «molti» individui legati da comuni prospettive che superano e nobilitano i loro difetti individuali. Cosí l’espressione famosa della lettera del 3 dicembre ’32 a Fanny – da intendere poi nel suo contesto del prevalere su tutto della passione, del «pensiero dominante» («che divenute son, fuor di te solo, tutte l’opre terrene, / tutta intera la vita al guardo mio») – va correttamente intesa non come avversione, ben giusta, di «moltitudini» di «individui» massificate senza tener conto dei loro bisogni e mali individuali e, cosí facendo, tanto piú interessantemente curate e adattate al dominio egemone dei ceti privilegiati, della borghesia in ascesa. Né l’espressione «sapete che abbomino la politica» può esser intesa come una posizione assoluta di negazione della politica (come intende U. Carpi nel suo volume Il poeta e la politica cit.), ma come acuito e ipersensibile attacco ad una politica errata, «tradizionale» (e aggravata dai liberalmoderati fiorentini e dal loro perfettibilismo ottimistico interessato), di quella politica «machiavellica» (in senso deteriore) che Leopardi vedeva fatta di «furore di calcoli e di arzigogoli politici» nella lettera al Giordani del 24 luglio 1828 (in Epistolario cit., V, p. 120).

24 Si vedano in proposito le pagine di N. Badaloni (Storia d’Italia, Einaudi cit., III), che ben chiariscono (a parte l’outrance di un pessimismo che troverà sfocio attivo, a ben vedere, tutt’altro che incoerente, nel «ben comune» della Ginestra e nel suo proposito di lotta contro la natura) la doppia costatazione di Leopardi dell’ordine naturale e dell’ordine sociale. Contro il primo si deve lottare ad ogni costo, conoscendone il fondo invincibile, con una diversa prospettiva e comportamento personale e interpersonale, e dunque sociale, che io ho in genere chiamato «prepolitico» perché a fondamento di una diversa politica, di una vera politica fatta per la «polis» di uomini consapevoli delle leggi della natura e storica che, a ben vedere, è riflesso anch’essa della natura, ma anche prodotto della follia e interessata astuzia umana che ne asseconda e moltiplica i germi negativi (donde la lotta anche con il secondo «ordine» come è attualmente consolidato). E se al Leopardi manca ogni elemento di lotta di classe, non si dimentichi che nella Ginestra il suo interesse si appunta sul rapporto fra gli intellettuali, portatori di verità, e il «vulgo» cui la verità è dovuta. E per un anticipo sul raccordo fra Palinodia e Ginestra si veda ancora N. Badaloni (in Storia d’Italia cit., III, pp. 924-925) a proposito della congiunzione negativa per l’uomo della «prima natura» e della «seconda natura» artificiale della «società macchina». Ne deriva «un crollo generale». «Eppure» (io direi «perciò», come si capirà dalla parte dedicata in questo mio discorso piú direttamente alla Ginestra) «vi è» «un punto di forza che deriva dalla congiunzione dell’atteggiamento eroico colla consapevolezza del vero».

25 Sulla parola «progressivo» (fonte di possibili equivoci) si ricordi la netta distinzione tra «progresso» (entro i limiti della condizione umana, preciso io) e «perfettibilità» quale fu stabilita da Luporini nel suo saggio Leopardi progressivo dal titolo provocatorio, ma sostanzialmente giusto.

26 Sul carattere ambiguo di quella «tregua», oltre alle grandi osservazioni del De Sanctis, si vedano ora le pagine (fra le altre) di F. Tessitore nella Storia di Napoli, Napoli, E.S.I., 1971. Per dati precisi (ma da arricchire e meglio precisare insieme allo studio del rapporto di Leopardi con personaggi napoletani e stranieri come Platen, con nuove e augurabili ricerche) si vedano la biografia di Iris Origo (Milano, 1974) e le sue indicazioni bibliografiche relative al periodo napoletano.

27 Senza accogliere il fondo del celebre saggio del Croce (Commento storico a un carme satirico di G. L., in «Aneddoti di varia letteratura», III, Bari, 1942) sarà certo da rilevare (e questi componimenti, come la Palinodia, chiederebbero nuovi esami e ricerche sino a una valutazione piú complessa dell’arte scrittoria del Leopardi anche in questa direzione) una specie di attrazione-disgusto per la vita del popolo napoletano fra scene ariose e alla fine simpatetiche, e ironiche condanne di una vitalità senza valori e scopi, appuntate e appesantite nel corposo aspetto di quel vitalismo godereccio e gastronomico («e di frutti di mare empier la pelle»). Lo stesso Leopardi fu fruitore avido di quei gelati «ond’è barone Vito», ciò che non è risibile aspetto del Leopardi personaggio nel periodo napoletano, né d’altra parte giustifica le ridicole ire con cui il dittatore fascista soppresse un settimanale di Longanesi (per un articolo arguto di Savinio su Leopardi e i sorbetti napoletani in mezzo alle risa dei «guaglioni») come offesa a un «genio della stirpe» che egli tanto poco capiva da mescolarlo con Byron fra i suoi autori prediletti, come risulta dai Colloqui con Mussolini di Ludwig.

28 Si badi bene: «sognò» che, a ben vedere è un ribadimento e uno spostamento della posizione del giovanile Infinito («io nel pensier mi fingo») già cosí lontana da vere forme mistiche-irrazionalistiche (si veda in proposito la mia interpretazione di quel canto nella citata Protesta di Leopardi) e ora meglio configurata nelle forme dei «sogni» necessari (ma «sogni») del vero materialista.

29 In questo verso c’è anche la sottile satira dell’avvio montiano «Bella Italia, amate sponde». Tante sono le allusioni di cui si intessono i Nuovi credenti nella loro apparente «spontaneità».

30 Per il Baldacchini si ricordi un sonetto su Leopardi, dopo la sua morte, in cui si assiste alla conversione implicita dell’ateo Leopardi perché il grande poeta in quanto tale è sempre religioso: «è col poeta Iddio».

31 Alla fine lo stesso De Sanctis che nel suo grande saggio su Leopardi e Schopenhauer tradiva questa piega dell’interpretazione meridionale quando affermava con parole tutte errate «è scettico e ti fa credere». Per un inizio di indagine sul leopardismo meridionale, si veda il saggio di N. Bellucci Celli sulla Guacci Nobile in Letteratura e critica, III Roma, 1976, pp. 493-528.

32 Si rilegga la nota pagina della Giovinezza del De Sanctis con l’alto suggestivo ritratto di quel Leopardi (pur «a primo sguardo» ci parve «una meschinità»): «In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso», (Giovinezza, a c. di G. Savarese, Torino, 1961, p. 774). E si rilegga anche il discorso dello Zumbini (Leopardi a Napoli, Napoli, 1898) con una versione dei ricordi desanctisiani anche piú ampia.

33 La simpatia dei puristi per Leopardi era fondamentalmente errata se si pensa al dissenso leopardiano di fondo con il purismo di vario rito e le punte ironiche nei Paralipomeni per espressioni puristiche del Cesari («mandar pel prete» per morire). E tutto sommato, continuo a non accettare l’estensivo giudizio di Timpanaro circa le origini puristiche della componente idillica (cfr. la mia Protesta di Leopardi cit., p. 85, n. 10).

34 Per Kant v. Zibaldone, 5-6 ottobre 1821, in Tutte le opere cit., II, p. 508 agosto 1822, ivi, p. 667 e 8 maggio 1828, ivi, p. 1156. (Si ricordi, per posizioni analoghe antiidealistiche, l’accenno di Stendhal negli Essais d’autobiographie: «Il étudia dans cette ville [Berlino] la langue et la philosophie allemandes, en conçut assez de mépris pour Kant, Fichte etc., hommes supérieurs qui n’ont fait que de savants chateau de cartes» in Oeuvres intimes, Paris, Pléiade, 1963, p. 1487). E cosí per Hegel e la dialettica anche se egli l’avesse conosciuta, l’avrebbe attaccata nel suo fondamento idealistico. E ben ha fatto recentemente Luporini, nella sua premessa alla ristampa del suo saggio, piú volte citato, presso gli Editori Riuniti, ad autocriticarsi sulla non conoscenza della dialettica come limite del Leopardi. Anzi, a mio avviso (in accordo con una nota posizione del Timpanaro) la mancanza della dialettica acuí in Leopardi il suo pensiero ultrapessimistico e la sua conseguenza attiva, di lotta evitandogli ogni forma di consenso «storicistico» ai «mali per un bene superiore» nel suo aspro iter speculativo poetico. Del resto io ho sempre considerato positivamente, nei confronti del loro realismo pessimistico e dei loro stessi esiti poetici, la mancanza della conoscenza della dialettica e della filosofia idealistica per tutto il filone italiano che va da Alfieri, a Foscolo, a Leopardi. Si veda in proposito la mia polemica con i «se», proprio su questo punto, nella mia Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963 e segg.

35 Si veda come caso estremo e insopportabile il citato saggio di N. Jonard in Il caso Leopardi, Palermo, 1974, che il curatore G. Petronio loda per il suo «esprit de finesse» e che il Timpanaro ha violentemente attaccato in «Belfagor», 1975.

36 Ma Leopardi (v. la mia intervista sull’«Avanti!», Leggere Leopardi, 23 febbraio 1974) dà avvertimenti importanti per la stessa cultura marxista con una lezione pessimistica essenziale contro ogni soluzione definitiva e ogni società felice e «ludica».

37 Epistolario cit., VI, p. 312 (19 febbraio 1836).

38 Se ci sono riferimenti paesistici ad altri luoghi italiani (come l’eccellente rappresentazione di Trevi ma in funzione della rappresentazione di Topaia, e ci sono echi e riferimenti alla Firenze dell’«Antologia» e del Gabinetto Vieusseux, soprattutto nella figura e prospettiva pedagogica del «filotopo» Leccafondi), piú forti si fanno avvertire i riferimenti, persino espliciti, a Napoli, come nella satira generale delle congiure («pensosi in su i caffè con le gazzette / fra man»: i famosi caffè liberali di Napoli ricchi di giornali! Cfr. canto VI, 17) e delle vicende dei moti napoletani del ’20-21 come nel canto III, 11-16, nell’attacco all’Accademia ercolanense («l’ipocrita canaglia», «razza a cagion di cui mi dorrebb’anco / se boia e forche ci venisser manco») estensivo a tutti gli eruditi, filosofi, intellettuali napoletani, come nella descrizione napoletana di Topaia e fin dalla grotta di Pozzuoli (sempre nell’inizio del canto III) e con la nota conclusiva dell’«odore» di Napoli.

39 La rivalutazione e interpretazione corretta dei Paralipomeni, dopo accenni piú sfuggenti dello Zumbini e del Bacchelli, proprio come libro «terribile» specie nei canti finali, certamente napoletani, cominciò con il capitolo Il libro terribile, della mia Nuova poetica del 1947 e, oltre a una meno nota parte dell’introduzione di S. A. Nulli a un’edizione di Poesie e prose del Leopardi, Milano, 1959, ardita anche nel forte rilievo del carattere ateo e politico-nazionale del poemetto, fu poi sviluppata, fra gli studi del Cappuccio, del Brilli e il commento dell’Oldrini, soprattutto dal libro di G. Savarese, Saggio su I paralipomeni del Leopardi, Firenze, 1966, e ora è stata arricchita dal pregevole commento di E. Alessandrone nel volume G. L., Opere, a c. di M. Fubini, Torino, 1977.

40 Del resto, nel canto III, la casa degli Asburgo, già da Carlo V a Filippo II, è aggredita violentemente nella descrizione tragica delle condizioni italiane ed europee nel ’500 e della scomparsa in quel secolo della «virtú», solo in parte viva nella figura di Andrea Doria (gli altri eroi che, con forti consonanze alfieriane, rifiutano il potere assoluto sono nei tempi antichi Timoleone e nei moderni Washington e, pur con mezzi inaccettabili, Maurizio di Sassonia, Egmont, Guglielmo d’Orange e Lorenzino dei Medici). E si badi bene: tutto ciò è collegato con la trama del poemetto e con la «virtú» di Rubatocchi «eroe» nel suo rifiuto del potere assoluto offertogli prima della sua eroica morte in battaglia (v. canto III, strofe 22-34: «Ma ributtò l’eroe con istupendo / valor le vili altrui persuasioni»). E tutto il tessuto ideologico dei Paralipomeni è tramato di sottili riflessioni e chiare conclusioni sulla politica in chiave decisamente democratica: l’attrazione contaminante del potere; la situazione del non cattivo re costituzionale Rodipane, ma che è intimamente affascinato dal regno assoluto e che «meno eroica la plebe avria voluta» – canto V, 28 – in difesa dello statuto; la stessa natura compromissoria e alla lunga insostenibile della monarchia costituzionale; la strumentalizzazione della plebe a cui vien dato «cacio e polta» (canto IV, 27) e non verità e potere; la rinnovata definizione del regime assoluto (austriaci in testa) come «regni bui» di origine infernale (canto V, 11); la netta preferenza per una repubblica popolare («lo stato franco» aborrito dai «granchi-reazionari»).

41 Piú che legittimi sono i dubbi e la non accettazione di precise allusioni a personaggi dell’epoca e dei moti liberali del ’20 e del ’31, che fan parte di una tradizione tardo-ottocentesca a cominciare dal libro di S. Cassarà, La politica di G. Leopardi nei Paralipomeni, Palermo, 1886, poi proseguita anche nel ’900 con il commento di G. Ferretti (G. L., Opere I, Torino, 1948). Ma qui l’allusione è scoperta fino a quel particolare del tetro ottuso despota che si diletta di suonare il violino (come il Mussolini dei primi anni della dittatura!) con l’aggiunta ironica-feroce della servilità della corte che lo proclama «buon sonator per altro anzi divino»: «Senzacapo re granchio il piú superbo / de’ prenci di quel tempo era tenuto, / nemico ostinatissimo ed acerbo / del nome sol di carta e di statuto, / che il poter ch’era in lui senza riserbo / partir con Giove indegno avria creduto. / Se carta alcun sognò dentro il suo regno / egli in punirlo esercitò l’ingegno. / E cura avea che veramente fosse / con perfetto rigor la pena inflitta, / né dalle genti per pietà commosse / qualche parte di lei fosse relitta, / e il numero e il tenor delle percosse / ricordava e la verga a ciò prescritta. / Buon sonator per altro anzi divino / la corte il dichiarò di violino» (44-45 del IV canto).

42 L’identificazione di questa ripresa (anche se con un «forse» che io cancellerei) si deve a G. Savarese, nel saggio citato.

43 «Stolta virtú» dice Bruto nel Bruto minore (bestemmia che in realtà esalta disperatamente la caduta virtú dei tempi repubblicani nella loro crisi ideologico-politica), «la virtú è il patrimonio dei coglioni» dice Machiavello in Per la novella di Senofonte e di Machiavello del 13 giugno 1822 (in Tutte le opere cit., p. 190), anche se nel finale della «prosetta satirica» egli dirà che «nonostante il mio rinnegamento degli antichi principii umani e virtuosi, fui costretto di conservare perpetuamente una non so se affezione o inclinazione e simpatia interiore verso loro» (ivi, p. 192). E ancora: rinnega la virtú il «galantuomo», giovane come Leopardi, e messo di fronte alla realtà della società nel dialogo Galantuomo e Mondo del ’21. E vedi la voce «virtú» (nel complesso senso di aspirazione e di rinnegamento) nel mio indice analitico dello Zibaldone in Tutte le opere cit., II.

44 Paralipomeni, canto V, str. 47-48.

45 Nuova singolare disposizione tonale e stilistica che rielabora elementi della componente «idillica» (sempre diversa da un idillismo «senza passione» per adoperare parole leopardiane dello Zibaldone, cfr. Tutte le opere, II, p. 612, con il pensiero risoluto del 26 gennaio 1822 contro gli «idilli» tradizionali) con fresche tinte realistiche e scherzose da poemetto eroicomico (basti citare l’ottava 12 del canto I: «Già la stella di Venere apparia / dinanzi all’altre stelle ed alla luna: / tacea tutta la piaggia, e non s’udia / se non il mormorar d’una laguna, / e la zanzara stridula, ch’uscia / di mezzo alla foresta all’aria bruna, / d’esperto dolce la serena imago / vezzosamente rilucea nel lago»), che varia e si screzia poi a seconda delle esigenze della narrazione del poemetto. Sicché, mentre in questi primi canti prevale il quadretto luminoso-velato (anche se sempre con un fondo satirico ambiguo e trascolorante), poi, specie nel viaggio di Leccafondi con Dedalo, i toni si inaspriscono, i quadri paesistici sono scossi da una crescente furia movimentata e drammatica: la notte cupa, il freddo pungente, il vento lungamente seguito nel suo impeto tempestoso (cfr. ottave 24-30 del canto VI: «Il vento con furor precipitando / schiantava i rami e gli arbori svellea»), nei suoi violenti mutamenti di direzione, con forza, ma non di effetti tormentosi («Messo s’era da borea un picciol vento / freddo, di punte e di coltella armato, / che dovunque, spirando, il percotea, / pungente al vivo e cincischiar parea»). Tutto converge in un enorme arricchimento di toni e linguaggio che poi troverà soluzione lirica densa, complessa, ma organica nel linguaggio della Ginestra. E a proposito di questo si ricordi, fra le molte, almeno la prova nei Paralipomeni dell’«indurato» («il flutto indurato» nella Ginestra e «lave indurate» nei Paralipomeni, VII, 31) e in genere tutta la scheletrica descrizione dell’Italia preistorica per il paesaggio pompeiano e vesuviano.

46 Dedalo non è un prestanome di Leopardi, ma (secondo un’acuta nota del commento dell’Alessandrone cit.) un personaggio (l’unico direttamente umano) che è a mezza strada (come alcuni pensatori del ’600) fra verità materialistica e rilanci di assurdità come quello dell’immortalità dell’anima. Leopardi piuttosto si identifica parzialmente con il topo virtuoso-eroico (Rubatocchi) e con il topo Assaggiatore (il cui nome è «topesco»-umano: assaggiare cibi, ma anche idee! con indubbia utilizzazione di «saggio»), ma soprattutto è il «malpensante» che in prima persona commenta e introduce argomentazioni proprie nella narrazione, in cui racconto e discorso si intrecciano, senza fratture ed anzi con complessità narrativo-satirico filosofica di grande risultato intellettuale-poetico.

47 Come ha fatto, dopo un buon saggio di A. Diamantini in «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1970, la mia allieva Elisabetta Burchi, sia nel saggio sui Pensieri in «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1977, sia piú distesamente, in un intero libro che è in stampa nella mia collana: Letteratura italiana: Studi e testi presso l’editore Bulzoni di Roma, da cui accolgo qui vari importanti spunti.

48 Pensiero I, in Tutte le opere cit., I, p. 215.

49 Nonché dei lavoratori, contadini e artigiani, di cui sarà (nella matura prospettiva leopardiana) esempio il «villannello ignaro» della Ginestra. Con quale cammino dalle prime figurazioni veramente idilliche e arcadiche padronali dei «puerili» che sbozzavano figurine manierate della «felice turba rustica» (cfr. in Tutte le opere cit., I, p. 519)! Sul tema del «lavoro» (tanto considerato anche da Luporini) si veda il mio saggio sulla celebre lettera sulla visita alla tomba del Tasso del ’23 (1967) in La protesta di Leopardi cit. Per l’espressione negativa del «mondo» si risalga allo Zibaldone (voce «mondo» del mio indice analitico), alla consonanza con l’uso fattone da Cristo rilevato da Leopardi e soprattutto all’uso vicino dell’Alfieri (ad es. nel sonetto LXI della parte prima delle Rime: «quest’empio, traditor mendace mondo / che i vizi apertamente onora»).

50 La situazione economica di Leopardi (malgrado il magro sussidio familiare che provocò in lui umiliazione e lettere angosciose e imbarazzate al padre e alla madre, tirannica amministratrice dei beni familiari) si era fatta nel periodo napoletano sempre piú grave e assillante ed egli fu minacciato «dall’esattore delle imposte per una piccola somma in cambio dell’esenzione del servizio militare, mancante la quale il poeta avrebbe potuto esser chiamato a servire nella polizia» (I. Origo, Leopardi cit., p. 369). Dovette trarre una cambiale sul Bunsen, e una sullo zio Antici.

51 In Epistolario cit., VI, p. 339.

52 Cfr. nota 1, p. 43 della mia Protesta di Leopardi, sopra.

53 Si ricordi almeno la sintomatica correzione del titolo dell’Infinito la cui maiuscola fu cambiata in minuscola (L’infinito) a fugare ogni equivoca interpretazione di tipo religioso e mistico, o l’inserzione, ben nota, di tre nuovi versi in Alla luna che dimostrano la spregiudicatezza dell’ultimo Leopardi nel reintervenire (aggiornando) sul testo dei suoi Canti.

54 Entro la ricchezza e finezza della sua analisi non ritengo di accettare interamente le interessanti ipotesi del saggio sul Tramonto (Dalla negazione all’attesa, Bologna, 1974) dell’amico Walter Moretti circa l’ultimità del Tramonto e il suo valore testamentario, quale è invece quello della Ginestra, certo non senza l’aggregazione delle conclusioni del Tramonto sulla sorte biologica dell’uomo e con il sentimento personale dell’approssimarsi della morte («Non io / con tal vergogna scenderò sottoterra»).

55 Con un distacco favoloso-narrativo che ne allontana ogni credibilità anche di richiamo antagonistico e blasfemo. Tutto è ormai risolto nella «natura» che nei Paralipomeni era stata definita «capital carnefice e nemica» degli uomini (IV, 12).

56 È nel soggiorno di Torre del Greco che fra gli altri suoi mali si manifestò una congestione cardiaca cronica con gonfiore delle gambe e difficoltà di respiro. La morte sopravvenne per collasso cardiaco, per l’asma aggravatasi già nel maggio 1836.

57 Epistolario cit., VI, p. 226.

58 Le parole giovannee (tradotte con un energico «vollero» al posto di «amarono») van raccordate con il sottinteso completamento della «luce», come luce della «verità», che è il perno dell’«apostolico» messaggio della Ginestra, anticristiano e antimistico. Cosí come, non a caso, il Leopardi riprende piú volte, prima della Ginestra, dal Vangelo giovanneo il senso negativo di «mondo» e, nella Ginestra, in uno dei suoi punti piú demistificanti, la formula religiosa di «figlio dell’uomo» denudandola del suo senso divino (il Cristo) e riportandola energicamente a quella specie di vero Cristo, o crocifisso nella realtà, che è per lui ogni uomo, ma di origine tutta materiale ed umana. Chiara è cosí la volontà leopardiana di dare alla Ginestra un tono «evangelico»-profetico (annuncio da parte di un «testimone» e «martire» della reale condizione degli uomini e della loro possibile ardua salvezza) su cui io insistevo nel ’47 nelle pagine della Nuova poetica leopardiana. Ora preferisco abolire gli espliciti richiami «religiosi» (antireligiosi) ed «evangelici» (buona amara novella) a scanso di equivoci che lettori poco attenti possono trarne.

59 È il punto piú sottolineato da B. Biral nella citata La posizione storica leopardiana. Ed è importante. Ma la prospettiva leopardiana è piú complessa e stimola, su base storica e testuale, a piú generali esplicazioni sociali e politiche, pur senza mai configurarsi in un «trattato» in versi tutto interamente decifrabile in termini esplicativi.

60 Sono le parole conclusive del libro di Monod (Paris, 1970, pp. 194-195) a cui altri scienziati «tradizionalisti» hanno replicato, sull’onda del riflusso irrazionalistico e religiosizzante che ritorna persino all’idea del creatore del cosmo.

61 Qui si esplica la vera «pietade» della Ginestra suscitata (in maniera non paternalistica) dal «vulgo», dai soggetti delle classi subalterne, base della nuova società, perché autentica zona capace di «virtú» se ad essa, finora «ignara», gli intellettuali leopardiani daranno, secondo il loro dovere, la «verità intera».

62 A mio avviso, qui Leopardi va al di là dell’enorme potenziale democratico del suo materialismo lucido e aggressivo (come Timpanaro ribadisce sulla rivista «New Left Review», 1978) e propone una vera orientante prospettiva di lotta doverosa contro la natura e per una società totalmente diversa e nuova, anche se esposta totalmente al rischio della sconfitta.

63 Rinvio, per l’utilizzazione di scrittori precedenti, al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento, e in genere al mio Preromanticismo italiano, Napoli, E.S.I., 1947 e Bari, Laterza, 1974. Ma molto c’è da recuperare da vecchi saggi fontistici come quello di G. A. Cesareo, Nuove ricerche su la vita e le opere di G. Leopardi, Torino, 1893, o di G. Negri, Divagazioni leopardiane, Pavia, 1894-99, e molto ancora c’è da rilevare, scoprire e utilizzare convenientemente.

64 Rinvio ancora al mio Preromanticismo italiano cit. e al libro di R. Negri, Gusto e poesia delle rovine in Italia fra il Sette e l’Ottocento, Milano, 1965.

65 Per la fortissima importanza dell’Alfieri (fin dal ’17) per Leopardi e per quella particolare delle Satire per l’ultimo Leopardi napoletano rinvio al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit. Su Alfieri si veda il mio profilo in Settecento maggiore, Milano, Garzanti, 1978, e i miei Saggi alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 1969 e ora in ristampa presso gli Editori Riuniti di Roma. Ma c’è ancora molto da indagare e rilevare.

66 Anche se, secondo il suggerimento di G. Meregalli, io riferisco il titolo della Ginestra (La Ginestra, il fiore del deserto) al titolo del Cienfuegos La rosa del desierto tradotto dal Tedaldi-Fores e apparso in un giornale napoletano. Ciò che induce ancora ad esplorare le letture leopardiane anche nel periodo napoletano. E cosí sarà da pensare che la suggestione del bassorilievo sepolcrale «antico» della prima sepolcrale sarà forse da ricercare (al di là delle ipotesi di A. Giuliano, G. Leopardi, Carlotta Lenzoni e Carlo Tenerani, in «Paragone», 1966) nella lettura e visione delle tavole della «Descrizione del Reale museo di Napoli» curata da A. Niccolini (dal 1822 in poi, dopo i volumi del Finati).

67 La ginestra non copre, con il suo simbolo, tutta l’enorme massa di pensieri-immagini del componimento e deve almeno saldamente riconnettersi con la figura eroica del poeta protagonista («Non io / con tal vergogna scenderò sottoterra») e con quella del vero intellettuale leopardiano: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale» ecc. ecc.

68 Zibaldone, 24 agosto 1821, in Tutte le opere cit., II, p. 440. È vero che in quel pensiero si diversifica, sul punto della persuasione, «sentimento» da «immaginazione», ma anche questa è detta non «inconciliabile» con la stessa scienza. Né si può in proposito accedere all’opinione secondo cui «persuasione» varrebbe solo «arte retorica del persuadere».

69 Zibaldone, 5-11 agosto 1823, in Tutte le opere cit., II, pp. 786-787. E si veda poi il pensiero sotto citato a proposito dei drammi a lieto fine, del 16-18 settembre 1823 in Tutte le opere cit., II, p. 862. Ma tutto il lungo saggio su Omero e la poesia epica è estremamente importante per il senso leopardiano della poesia in genere (oltreché un grande saggio critico sull’Iliade) con forti implicazioni sulla «mira» del poeta, sulla complessità dell’intreccio di quel poema (in opposizione alla unità aristotelica), che hanno rinforzato in me e nella mia metodologia la prospettiva della «poetica» cosí come già avvenne, su precise posizioni leopardiane, circa l’indissolubile rapporto fra «stile» e «affetti e pensieri», in posizione antiformalistica e anticontenutistica. Vedi i pensieri sempre del ’23: quello che esalta «i pregi dello stile» senza di cui un’opera stimata per i «pensieri» non è veramente stimabile (Tutte le opere cit., II, p. 706, 19 giugno 1823) e il piú lungo pensiero contro chi ripone tutto il pregio della poesia «anzi tutta la poesia nello stile» senza capire che lo stile non vive senza «immagini, sentimenti, pensieri», 9 settembre 1823, Tutte le opere cit., II, p. 846 (citati appositamente nel mio libro Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, 19808).

70 Si ricordi ancora in proposito quanto io scrissi in una recensione, sul «Nuovo Corriere» del 1948, al saggio di Luporini (e pensando anche alle ipotesi del Salvatorelli nel suo capitolo leopardiano in Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, 1935): «Leopardi era su un’onda piú lunga di quella che approda ad ogni limitata rivoluzione». Allora pensavo anche ad altri esiti rivoluzionari dolorosamente deludenti. E si veda il finale del mio saggio La protesta di Leopardi.

71 In Zibaldone, 13 aprile 1827, in Tutte le opere cit., II, p. 1145.

72 In Zibaldone, 22-29 gennaio 1821, in Tutte le opere cit., II, p. 187.

73 Essa stessa non priva di incertezze circa la reale consistenza dei resti di Leopardi in essa, a parte le dicerie sulla sepoltura nella fossa comune in tempi di colera. Si ricordi del resto (circa lo scarso interesse di Leopardi per l’identificazione precisa delle tombe e del loro valore) quanto egli dice della tomba virgiliana (nel cui parco è posto il sepolcro di Leopardi) nei Paralipomeni, canto III, 4; «o se a Napoli presso, ove la tomba / pon di Virgilio un’amorosa fede». Mentre nel primo Leopardi (da All’Italia, con il finale di Simonide che chiede una fama «appo i futuri» duratura quanto quella degli eroi la cui tomba è «un’ara», al canto Ad Angelo Mai, in cui spunti sepolcriani sono indubbi nell’appello dei morti illustri, anche se inascoltati, a cui il poeta si rivolge tra speranza e delusione, alla canzone per le Nozze della sorella Paolina con la tomba di Virginia «cui di pianto onora / l’alma terra natia») è chiaro il particolare, personalizzato foscolismo sepolcriano, poi (e si ricordi un pensiero dello Zibaldone, 15 settembre 1823, in Tutte le opere cit., II, pp. 856-857, sostanzialmente antifoscoliano circa l’origine e la causa dei sepolcri) la tentazione della stessa immagine foscoliana del sepolcro «onorato di pianto» è vinta e accantonata fra le varianti del finale di A Silvia (la «tomba ignuda» è scelta dopo molti diversi tentativi fra cui è il foscoliano «a me la tomba inonorata e nuda») e nelle Ricordanze prevale solo la «rimembranza acerba» nettamente anticonsolatoria. Ciò non toglie che (come dimostra la parte aggiunta di D. De Robertis al commento ai Canti di G. De Robertis, Milano, 1978) echi foscoliani anche dei Sepolcri (al di là dell’imponente massa di suggerimenti dell’Ortis, fondamentale per Leopardi) siano recuperabili nei Canti, con spostamenti ideativi-linguistici significativi (si pensi, nelle Ricordanze, al passo relativo a Nerina «i campi / l’aria non miro» e al suo rapporto con il foscoliano passo su Alfieri «i campi e il cielo / desioso mirando» e cfr. in proposito il mio saggio Foscolo oggi: proposta di un’interpretazione storico-critica, in «La Rassegna della letteratura italiana», III, 1978, nota a pp. 348-349).